Aurobindo in Letters on Yoga IV[1] parla dell’attitudine yogica verso il cibo, caratterizzata dal distacco e dall’eguaglianza che si dovrebbe sviluppare nei riguardi di tutti gli oggetti di desiderio.
Sono da evitare sia la soppressione forzata che l’indulgenza senza limiti, in quanto in entrambi i casi il desiderio rimane: o esasperato a causa della soppressione o favorito dall’indulgenza.
Il distacco, ovvero la separazione del sé dai bisogni vitali, implica la consapevolezza della differenziazione tra il sé e i propri desideri.
Seguendo questa via, gradualmente, si attua la purificazione.
Ogni ondata di desiderio va osservata quietamente e con immobile distacco lasciandola andare al di fuori della coscienza per lasciare spazio alla vera coscienza.
Riguardo al cibo -come alle bevande- lo scopo dello Yoga è di arrivare a non provare bramosia o schiavitù nei confronti dello stomaco o del palato.
Diversi sono i modi per raggiungere questo obiettivo:
- per quanto riguarda –ad esempio- il tè, la via più forte e più semplice è smettere di prenderlo;
- per il cibo la via migliore è di prendere usualmente il cibo che viene dato, una pratica di non attaccamento che libera da fantasie e capricci. Questo dovrebbe significare prendere l’indulgenza della Domenica.
Il resto deve essere fatto attraverso un cambiamento più alto di coscienza e non seguendo mezzi esterni[2].
Il Maestro considera un errore trascurare il corpo e lasciare che esso si sciupi:
esso è lo strumento della Sādhanā e deve essere mantenuto in buon ordine;
non dovrebbe esserci nessun attaccamento al corpo, ma neppure disprezzo o trascuratezza della parte materiale della nostra natura.
In questo Yoga lo scopo è non solo l’unione con la più alta consapevolezza ma la trasformazione (attraverso il suo stesso potere) della parte più bassa inclusa la natura fisica. Non è necessario avere desiderio o avidità di cibo per mangiare, lo yogi mangia al di fuori del desiderio per mantenere il corpo.
Aurobindo sottolinea più volte come il fine del mangiare è procurare il necessario nutrimento al proprio corpo, senza attaccamento e senza repulsione.
Queste parole sottintendono anche l’importanza di non attribuire altri significati al pasto.
Il Maestro riconosce che il desiderio di cibo può essere forte poiché esso è sorto precocemente e ha portato all’origine notevoli difficoltà, così la mente spesso ci torna creandosi giustificazioni.
Serve una crescente consapevolezza per superare ciò, insieme allo sforzo di non pensarci troppo.
Vi sono persone che più facilmente seguono i precetti ed altre più deboli, più soggette al dominio del piacere e del soddisfacimento dei bisogni più bassi; in essi si fanno strada forze esterne ostili allo yoga che cercano di trarre vantaggio da oscurità, ribellione e debolezza….
Il desiderio di cibo va purificato e padroneggiato aiutandosi anche col non dare ad esso troppa importanza.
Si può ottenere ciò attraverso due strade:
“una è il distacco, considerare il cibo come una necessità fisica e la soddisfazione dello stomaco e del palato come una cosa di piccola o nessuna importanza; l’altra è essere capaci di prendere, senza cercarlo, qualsiasi cibo arrivi o venga dato e di trovare in esso un uguale rasa (gusto o sapore)….per l’amore dell’Ananda universale.
Quest’ultimo modo arriva solo quando si vive già nella consapevolezza cosmica e quindi è la prima (strada) che bisogna prendere in considerazione[3]”.
Ma non solo è importante arrivare a mangiare il cibo nella giusta quantità e senza attaccamento; è altrettanto importante mangiare in silenzio o in una situazione di tranquillità.
L’attaccamento al cibo e l’avidità o l’entusiasmo verso di esso lo rendono una cosa eccessivamente rilevante nella vita e questo è contrario allo spirito dello Yoga.
Non è sbagliata la consapevolezza delle sensazioni piacevoli o al contrario sgradevoli che un cibo può dare, ciò fa parte di naturali sfumature di sensibilità, ma bisogna porre il cibo nella giusta posizione della vita, in un piccolo angolo e non concentrarsi su di esso.
“…prendere cibo sattvico -come fanno i Sannyasis- non necessariamente distrugge l’avidità per il cibo, essa può rimanere compressa ed ingrandirsi”.
Il metodo per liberarsi dell’avidità verso il cibo è il non attaccamento e l’equanimità; prendere cibo sufficiente, né poco, né troppo, come raccomanda anche la Gita.
Due cose -afferma Aurobindo- possono interferire con l’avidità verso il cibo: le limitazioni del corpo e la disapprovazione della mente.
“Nel primo caso è il corpo stesso che con le sue reazioni aiuta (o costringe) la persona a limitarsi; più difficile è l’intervento della mente (spesso troppo condizionata)”.
Anche se non fa parte di (questo) Yoga sopprimere il gusto, tuttavia, se si vuole divenire uno Yogin, non ci si comporterà come un uomo ordinario, che soggiace ad ogni desiderio o repulsione. Si possono trovare (sentire) le cose buone o cattive senza alcun attaccamento. Ancora una volta ciò che viene indicato è l’equilibrio che scaturisce da un crescente distacco.
Non bisogna sopprimere la fame, poiché ciò può creare disordini e compromettere la salute: può accadere di essere molto concentrati all’interno di sé stessi e poco attenti ai bisogni del corpo, ma questo può portare alla debolezza del corpo[4].
Se mangiare troppo rende il corpo pesante, mangiare troppo poco lo rende debole e scuote il sistema nervoso.
Per lo Yoga, come per l’Ayurveda, è un errore mangiare troppo o troppo poco.
Ciò che va ricercato è l’armonia tra i bisogni del corpo e la quantità di cibo necessaria a soddisfarli. Questa ricerca ognuno la deve fare per sé stesso, tenendo presente la sua costituzione, capacità digestiva, attività fisica e tipo di lavoro, fisico o mentale.
Non è sufficiente di per sé mangiare poco per essere persone spirituali.
Tuttavia, quando la consapevolezza fisica aumenta si diventa sensibili al cibo troppo ricco o pesante e si ricerca la semplicità.
Anche quando si avanza con l’età è meglio ridurre le quantità a favore di cibi salutari.
Aurobindo sconsiglia il digiuno, salvo pochi casi eccezionali.
Egli lo ha sperimentato una volta per 10 giorni e un’altra per 23 giorni per comprenderne le implicazioni sul corpo e sulla mente.
La sua conclusione è che non costituisce una buona pratica e lo paragona ad un violento esercizio.
Ancora una volta:
“Migliore è invece l’atteggiamento di equanimità con il quale si accoglie ogni cosa che arriva (o non arriva)”.
Consiglia di evitare di suggerire di non mangiare poiché si corre il rischio che si affermi la forza del mentale con le sue preoccupazioni….
È meglio permettere che le condizioni di tranquilla concentrazione crescano sempre più fino a che esse arrivino ad accompagnare anche il pasto come ogni altro momento della giornata[5].
Così il troppo digiuno indebolisce il sistema nervoso, vi è un eccitamento iniziale, un aumento di energie e ricettività, ma nel frattempo il corpo e i nervi si indeboliscono e si può facilmente sviluppare una condizione morbosa di alterazione dovuta ad un maggiore afflusso di energia vitale che il sistema nervoso non riesce né ad assimilare, né a coordinare. Ciò comporta una perdita di equilibrio.
Poiché una cosa è l’energia vitale e un’altra è la sostanza fisica (o corpo) senza la quale la vita perde il suo supporto.
Entrambe queste cose, se in disequilibrio, sono negative per la Sādhanā.
La tentazione di ridurre troppo il cibo, che Egli considera uno dei pericoli della Sādhanā, deriva da certe forme di ascetismo del passato secondo le quali non è necessario mangiare o dormire…
Ciò è considerato da Aurobindo disastroso.
Unica eccezione è quando il digiuno sia reso necessario da una malattia oppure quando sia necessario far riposare lo stomaco per disturbi digestivi, ma non deve essere prolungato per più di 1 giorno.
La regola deve essere quella di nutrirsi in modo regolare e sufficiente.
Non è il digiuno lo strumento per percorrere la via dello Yoga, ma essere costanti nella propria (salutare e moderata) dieta e non essere impazienti con la Natura.
La trasformazione interiore procede per stadi successivi e non si può raggiungere con mezzi fisici, anzi il cambiamento fisico è l’ultimo di questi stadi ed è esso stesso un processo collegato alla penetrazione di una superiore consapevolezza fin nelle cellule del corpo[6].
Il cibo va dunque preso con il giusto spirito e la giusta consapevolezza, come il sonno va gradualmente trasformato in riposo yogico.
Un tapas eccessivo, inteso come austerità, può mettere in pericolo il processo della Sādhanā alterando le forze delle varie parti del sistema.
Aurobindo riconosce la possibilità che i vari tipi di cibo favoriscano l’azione di differenti Guṇa, tuttavia risulta difficile -secondo il Maestro- discriminare tra i vari tipi di cibo, tamasico, rajasico e sattvico.
Da un punto di vista spirituale egli collega l’effetto del cibo soprattutto alle atmosfere occulte e alle influenze che arrivano con esso piuttosto che alle proprietà del cibo stesso.
Conseguentemente, pur riconoscendo indirettamente l’importanza del vegetarianesimo, Egli afferma che ognuno deve arrivarvi con i suoi tempi.
