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Śrī Svāmī Kṛṣnānanda
Pratyāhāra o astrazione

Traduzione autorizzata dalla Divine Life Society, tratta da: Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, The Yoga System, Chapter 9. Pratyāhāra or abstraction, ã tutti I diritti riservati, The Divine Life Society,  Sivananda Ashram, Rishikesh, India Website: swami-krishnananda.org , pgg. 52-76.

foto di krishnananda

Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, fonte: https://www.swami-krishnananda.org/gallery_01.html

Riportiamo l’insegnamento di Śrī Svāmī Kṛṣnānanda tratto dal testo originale. E’ un testo particolarmente efficace nel descrivere le difficoltà ed i rischi che si presentano nell’affrontare il pratyāhāra senza un’adeguata preparazione ed un livello sufficiente di realizzazione di yama, niyama, āsana e prāṇayama. Conoscere in anticipo tali aspetti è fondamentale per sia per acquisire consapevolezza della complessità del percorso sia un ausilio durante la pratica. Come sempre, di grande aiuto, è la riflessione su ahiṃsā, la non-nocività da esercitare anche verso noi stessi.

Siamo ancora nel cortile esterno dello yoga. Āsana e prāṇayama formano l’esterno dello yoga vero e proprio. Gli arti interni che formano la sua corte interna sono oltre. Pratyāhāra o il ritiro dei poteri dei sensi è dove inizia questo cerchio interno. Così come āsana è un aiuto nel prāṇayama, così il prāṇayama è un aiuto nel pratyāhāra.
Āsana è una postura fisica stabile; prāṇayama è l’armonia o la regolarizzazione dell’energia interiore mediante un’appropriata manipolazione del respiro.
Pratyāhāra è il ritiro dei poteri dei sensi dai loro rispettivi oggetti. Pratyāhāra significa “astrazione” o “riportare indietro”. Come il cavaliere su un cavallo ne controlla i movimenti azionando le redini che tiene in mano, lo Yogi controlla i sensi con la pratica del pratyāhāra. Per comprendere il significato del pratyāhāra, dobbiamo tornare alla nostra prima lezione di yoga. 

Perché dovremmo frenare i sensi? sarebbe la domanda. Lo yoga è la tecnica della realizzazione dell’universale. L’individuo deve essere in sintonia con la dimensione cosmica: questo è essenzialmente lo scopo dello yoga. I sensi agiscono come ostacoli in questo sforzo. Mentre l’individuo cerca di unirsi all’universale, i sensi cercano di separarlo da esso diversificando l’interesse. L’attività principale dei sensi è quella di fornire una prova che c’è un mondo fuori, mentre l’analisi dello yoga afferma che non c’è davvero nulla al di fuori dell’universale. Quando cerchiamo di pensare come l’universale penserebbe, i sensi ci impediscono di pensare in quel modo e ci fanno sentire e agire in termini di molteplicità e varietà.
È qui che la maggior parte delle persone trova difficoltà nella meditazione. I sensi non tacciono quando c’è un tentativo di meditazione. Piuttosto distraggono i poteri nel sistema interiore e ritardano la focalizzazione della coscienza. I sensi rilasciano l’energia lungo diversi canali di attività, i principali sono le funzioni di vedere, udire, annusare, toccare e gustare. 

Finché vediamo il particolare, non possiamo credere nell’universale. Nessuno crederebbe nell’esistenza dell’universalità, perché nessuno l’ha vista. I sensi sembrano intenzionati a creare una differenza tra il vedente e il visto. Il fatto, tuttavia, è che non c’è differenza tra l’individuale e l’universale. L’apparente differenza è stata creata dai sensi. Si è ipnotizzati da loro in un errato riconoscimento. Mentre l’individuo è onnipotente, lo ipnotizzano nella sensazione di essere impotente e lo costringono a subire i dolori dell’individualità. Un milionario può subire i dolori della penuria in un sogno.
Dopo un sontuoso pasto, nel mondo dei sogni ci si può sentire affamati. Abbiamo esperienza in sogno di uno spazio espansivo, mentre siamo confinati tra le quattro mura di una stanza. Mentre siamo nella nostra località, sogniamo di essere volati in una terra lontana. Una circostanza creata psicologicamente diventa la causa della differenza di esperienza.
Luogo, tempo e circostanze possono essere modificati quando la mente entra in un diverso stato di coscienza. I sensi nello stato di sogno producono l’illusione di un mondo esterno che non esiste “fuori”. Ciò significa che possiamo vedere le cose anche se ci sono. Non è necessario che fuori ci sia un mondo reale per poterlo vedere. Il sogno fa apparire l’unico individuo come tanti. Così due verità vengono qui in rilievo: l’una può diventare le molte; e possiamo vedere un mondo che non c’è.

Questo è esattamente ciò che ci sta accadendo anche nello stato di veglia: la stessa legge, la stessa regola di percezione, la stessa struttura esperienziale. Il fatto che vediamo un mondo non significa che debba esistere davvero, sebbene abbia la realtà di “essere percepito”. Solo quando ci svegliamo dal sogno impariamo cosa ci è successo in sogno,  non quando siamo nel sogno. Proprio come i sensi della condizione onirica ci intrappolano in un’esperienza del mondo onirico, i sensi dello stato di veglia fanno con noi la stessa cosa. Quando i sensi del sogno sono ritirati, ci svegliamo dal sogno; quando i sensi di veglia sono ritirati, entriamo nella realtà universale.
Questa è la ragione per cui pratyāhāra deve essere raggiunto nello yoga, che è la via per la realizzazione dell’universalità. Se non limitiamo i sensi, saremmo nel sogno del mondo. Quando riportiamo i sensi alla loro fonte, la bolla dell’individualità irrompe nell’oceano dell’Assoluto. Non partecipiamo alla natura del mondo, anche se non siamo nulla di ciò che vediamo in sogno. Pratyāhāra è essenziale per svegliare l’uomo dal lungo sogno della percezione del mondo. Queste sono verità sottili su cui meditare, che sono purificanti anche solo ascoltandole. Anche se si ascoltano queste verità, i propri peccati saranno distrutti. Questa è la necessità per la pratica del controllo dei sensi. 

Finché i sensi si aggrappano ai loro oggetti, siamo in un mondo. Lo yoga si eleva al di sopra della mera percezione del mondo fino alla coscienza universale. Ci sono molti metodi [operativi] di pratyāhāra. I testi custodiscono questi strumenti come grandi segreti. Nessuno dovrebbe cercare di meditare senza la purezza del cuore. Non si deve entrare nel sentiero a meno che non siano soddisfatte le precondizioni. Non si dovrebbe semplicemente costringere la mente alla meditazione senza sentimenti purificati. I desideri frustrati rappresentano grandi pericoli.
Avvicinarsi allo yoga con desideri in agguato sarebbe come toccare una dinamite che esplode. Lascia che il cuore sia libero, perché è il cuore che deve meditare e non solo il cervello. Il pensiero non può ottenere nulla quando il cuore è altrove e i sentimenti sono diretti a un obiettivo diverso. Si può dire che pratyāhāra costituisca le frontiere dello yoga.
Quando si pratica pratyāhāra si è quasi al confine dell’Infinito, e qui si hanno sensazioni super fisiche. È qui che si sente maggiormente il bisogno di un Guru. Anche in questo caso si sperimentano tremori del corpo, svolazzi della mente, sonnolenza e iperattività dei sensi. Quando tentiamo [di praticare] pratyāhāra, i sensi diventano più acuti. Più fame, più passione, più suscettibilità all’irritazione, ipersensibilità, sono alcune delle prime conseguenze di questa pratica nello yoga. 

Per illustrare questa condizione possiamo fare un esempio: se tocchiamo il nostro corpo con un bastone o anche con una verga di ferro, non lo sentiamo. Ma i nostri occhi non possono sopportare nemmeno il tocco di una fibra di seta, a causa della sottigliezza della struttura dei bulbi oculari.
La mente diventa così sottile che rimane suscettibile alla minima provocazione, impatto o esposizione. Nello stadio di pratyāhāra rimaniamo in una condizione in cui entriamo direttamente in contatto con i sensi, poiché la polizia si scontra faccia a faccia con i banditi che prima si nascondevano in agguato e ora combattono con la polizia senza  badandare alla morte. In una lotta all’ultimo sangue la forza dei poteri combattivi aumenta e viene raddoppiata di colpo.
Se un serpente, in procinto di morire in una lotta, morde una persona, si dice che non ci sia rimedio, perché il suo veleno allora si intensifica nella rabbia. La fiamma si alza prima di spegnersi.
Allo stesso modo i sensi, quando sono impegnati in pratyāhāra, diventano iperattivi, sensibili e tremendamente potenti. Qui lo studente incauto può cadere. Che fare quando i sensi diventano così attivi e feroci? Non si può sopportare la vista degli oggetti dei sensi in questa condizione, in questo caso non si dovrebbe essere nelle vicinanze di questi oggetti. Mentre si vive una vita sociale normale, nulla può sembrare particolarmente allettante. 

Ma ora, allo stadio pratyāhāra, si diventa così sensibili che i sensi possono cedere da un momento all’altro. È come camminare sul filo di un rasoio, affilato e tagliente, sottile e difficile da percepire. Un po’ di disattenzione, in questo caso, potrebbe significare conseguenze pericolose. Sottile è il sentiero dello yoga, invisibile agli occhi e difficile da percorrere. Gli yama e i niyama praticati in precedenza saranno di aiuto in questo stato.
La grande disciplina a cui si è sottoposti negli yama e nei niyama proteggerà dall’assalto dei sensi. A causa dell’onestà dello studente, Dio lo aiuterà a uscire dalla situazione.
Questa è la guerra della pratica del Mahabharata, in cui si devono combattere i poteri dei sensi inclini agli oggetti e ai piaceri. Pratyāhāra dovrebbe anche andare di pari passo con vicāra, ovvero un’attenta indagine di ogni condizione psicologica nel processo. 

I sensi scambiano facilmente una cosa per un’altra. Il samsara o l’esistenza del mondo non è altro che un miscuglio di errori di valutazione dei valori. I sensi non possono vedere la Verità. Non solo questo; vedono la falsità. Confondono, dice Patañjali, il non-eterno per l’eterno, l’impuro per il puro, il dolore per il piacere e il non-Sé per il Sé. Questo è il quadruplice errore commesso dalla mente e dai sensi. Non c’è nulla di permanente in questo mondo.
Tutto passa, una verità che tutti conosciamo molto bene. Tutti sanno che il momento successivo è incerto e tuttavia possiamo vedere quanta fede le persone ripongono nel futuro e quali preparativi fanno anche per cinquant’anni a venire. Non ci può essere nulla di stabile nel mondo a causa dell’impermanenza dell’intero cosmo coinvolto nel processo di evoluzione. 

Eppure l’uomo prende le cose come entità permanenti. I sensi non possono vedere esattamente cosa sta accadendo davanti a loro. Sono come persone con gli occhi bendati che non sanno cosa hanno davanti. Fu il Buddha a fare della dottrina centrale della proclamazione che tutto è transitorio, eppure, ai sensi, tutto sembra essere permanente, il che significa che non possono vedere la realtà. Non c’è [sempre] la stessa acqua in un fiume che scorre in un dato punto. Non esiste un’esistenza continua di una fiamma di fuoco ardente. È tutto movimento di parti, salto di particelle. Ogni cellula del corpo cambia. Ogni atomo di materia vibra. Tutto tende a qualcos’altro. Ovunque c’è solo cambiamento [pariṇāma]. Ma per sensi non c’è cambiamento da nessuna parte e tutte le cose sono solide. Sposato con questa teoria dei sensi, l’uomo non è disposto ad accettare nemmeno la propria morte imminente. Tanta e la fiducia nella saggezza dei sensi. Inoltre i sensi scambiano l’impuro per il puro. Pensiamo che questo nostro corpo sia bello e caro e che siano cari anche altri corpi ad esso collegati. 

Abbracciamo le cose come belle, senza sapere che alla base della loro apparente bellezza c’è un’impurità sostanziale. Per mantenere la cosiddetta bellezza e purezza del corpo ci impegniamo quotidianamente in molte pratiche come il bagno, l’applicazione di sapone, cosmetici, ecc. La vera natura del corpo viene rivelata se non gli si presta attenzione per alcuni giorni. Questo è anche il caso di tutto il resto del mondo. Tutte le cose manifestano la loro natura quando non vi si presta attenzione. Quando il corpo è malato e affamato mostra la sua vera forma.
Nella vecchiaia, la sua vera natura è visibile. Tale è la bellezza del corpo preso in prestito: artificiale, ingannevole. Perché non vediamo la stessa bellezza nel corpo colpito da una malattia mortale, o quando è morto? Dove va allora il nostro affetto per il corpo amato? Nella mente c’è una confusione che fa vedere le cose dove non sono,  costruisce valori dalla sua immaginazione. C’è una bruttezza sottostante che assume il contorno della bellezza sfruttandola da qualche altra fonte, e passa per una bella sostanza, proprio come uno specchio brilla prendendo a prestito la lucentezza da una luce – è la luce che brilla e non lo specchio, anche se di solito diciamo che lo specchio brilla. Confondiamo una cosa con un’altra. La bellezza non appartiene al corpo. Appartiene davvero a qualcos’altro che i sensi e la mente non possono visualizzare o comprendere. 

Per questo le scritture dello yoga descrivono  come sia impuro questo corpo. Da dove viene il corpo? Vai alla sua origine e ti renderai conto di quanto sia puro quel luogo. Cosa gli accade quando non viene curato, quando è gravemente malato e quando viene derubato dei suoi prāṇa [energie vitali]? Dov’è la bellezza nel corpo dal quale i prāṇa si sono ritirati? Perché non vediamo la bellezza in un cadavere? Che cosa ci attraeva nel corpo vivente? Non ci si può fidare dei messaggi dei sensi. Confondiamo inoltre il dolore con il piacere. Quando soffriamo, siamo portati a pensare che stiamo godendo dei piaceri.
In termini psicoanalitici, questo è paragonabile a una condizione di masochismo, in cui si gode la sofferenza. Si è talmente addolorati che la stessa condizione dolorosa appare come una soddisfazione.
L’uomo non ha mai conosciuto cos’è la vera Beatitudine, cos’è la felicità, cos’è la gioia. Nasce nel dolore, vive nel dolore e muore nel dolore. Egli scambia questo grave stato per una condizione naturale. “A causa delle conseguenze che seguono la soddisfazione di un desiderio, l’ansia che accompagna il desiderio di perpetuarlo, le impressioni prodotte dal godimento e il flusso perpetuo dei guṇa della prakṛti, tutto è doloroso”, dice Patanjali. 

È solo la mente discriminante che scopre i difetti inerenti alla struttura del mondo. La conseguenza del godimento è la generazione di ulteriore desiderio di ripetere il godimento. Il desiderio è una conflagrazione di fuoco che, una volta alimentato, richiede sempre più carburante. Il desiderio si espande. “Il desiderio non si estingue mai con la sua realizzazione”, è una grande verità ribadita nei testi dello yoga. L’effetto della soddisfazione di un desiderio non è il piacere, anche se si è portati a pensarlo; l’effetto è ulteriore desiderio. Non si può dire per quanto tempo si continuerà a godere; perché non ha fine. L’uomo non vuole morire, perché morire a questo mondo equivale a perdere i centri del piacere.
La mente riceve uno shock quando sente la notizia della morte che è vicina. Il desiderio è la causa della paura della morte. La conseguenza della soddisfazione di un desiderio dovrebbe quindi dare a tutti una lezione. Inoltre, quando siamo posseduti dall’oggetto del desiderio, nel profondo non siamo veramente felici. C’è una preoccupazione per preservarlo. Non si dorme bene quando ci sono molte cose soddisfacenti. Gli uomini ricchi non sono felici. 

I loro parenti possono derubarli della ricchezza, i briganti possono portargliela via e il governo può appropriarsene. Solo perché abbiamo il nostro oggetto del desiderio, non significa che possiamo essere felici. Si era infelici quando non si aveva l’oggetto, e ora c’è di nuovo infelicità a causa del suo possesso. C’è un’altra causa dell’insoddisfazione. Attraverso la soddisfazione di un desiderio, inconsapevolmente creiamo nel nostro subconscio, in modo sottile, impressioni psichiche. Proprio come quando si parla o si canta davanti a un microfono, sul piatto di un grammofono si formano dei solchi e il suono può essere riprodotto un numero qualsiasi di volte; così anche quando si ha l’esperienza del godimento di un oggetto, a livello subconscio si formano le impressioni che possono essere ripetute un numero qualsiasi di volte, potrebbero anche essere state dimenticate, potrebbero anche essere state attraversate molte nascite e anche quando non le si vuole più.
Le impressioni create da un atto di godimento sono per il proprio dolore in futuro. C’è una quarta ragione: la rotazione della ruota dei guṇa di prakṛti. Prakṛti è il nome che diamo alla matrice di tutta la sostanza, costituita dalle proprietà chiamate sattva, rajas e tamas. Sattva è trasparenza, purezza ed equilibrio di forza. 

Rajas è distrazione, divisione e biforcazione di una cosa da un’altra. Tamas è inerzia, né luce né attività. Queste sono le tre modalità [operative] di prakṛti e le nostre esperienze non sono altro che la nostra unione con queste modalità. Siamo annoiati i quando in noi opera tamas, siamo addolorati quando agisce rajas e siamo felici quando predomina sattva. Possiamo essere felici solo quando sattva è preminente, non altrimenti. E non possiamo essere sempre felici, perché sattva non  sempre sarà preminente. La ruota di prakṛti gira e non è mai ferma. Sattva occasionalmente sale e poi scende.
Quando sale ci sentiamo felici e quando scende siamo infelici. In una ruota in movimento, nessun raggio può essere fisso o essere sempre nella stessa posizione. La felicità in questo mondo, quindi, è impermanente; va e viene. Tutto questo mondo, così costituito fisicamente e psicologicamente, è fonte di dolore per la mente discriminante. Anche la gioia transitoria del mondo risulta essere solo il risultato di un rilascio di tensione biologica, un solleticamento dei nervi e un’illusione della mente disinformata. Inoltre, confondiamo il non-Sé con il Sé, errore gravissimo che commettiamo tutti quotidianamente. 

Quando amiamo qualcosa, trasferiamo il Sé al non-Sé e infondiamo il non-Sé con i caratteri del Sé. Il Sé è ciò che conosce, vede e sperimenta. È la coscienza in noi. Ciò che è visto o sperimentato e ciò che consideriamo come un oggetto, è il non-Sé. L’oggetto non è il Sé perché non ha coscienza. Che un essere come l’uomo abbia coscienza non è un argomento contro il suo essere un oggetto, poiché ciò che si vede è la forma umana e non la coscienza. L’oggettività nelle cose è ciò che le rende oggetti. Non sono gli oggetti che conoscono il mondo; è la coscienza ininterrotta che lo sa.
Non è il mondo che sente un mondo, ma il soggetto conoscente. La coscienza prende coscienza della presenza di un oggetto mediante un’attività misteriosa che si svolge psicologicamente. Come si diventa consapevoli di una montagna, per esempio? È un po’ difficile capire questo semplice fenomeno, sebbene si verifichi quasi quotidianamente. La montagna che è di fronte non entra negli occhi o nella mente di chi percepisce.
È lontana, eppure la mente sembra essere consapevole della sua esistenza. Non è che gli occhi vengano a contatto con l’oggetto; l’oggetto non tocca fisicamente il soggetto. Come fa allora a conoscere l’oggetto? Si può dire che i raggi luminosi che emanano dall’oggetto colpiscono la retina degli occhi del soggetto e quest’ultimo conosce, quindi, l’oggetto. Ma né l’oggetto ha alcuna coscienza né i raggi di luce l’hanno, e un’attività inerte non può produrre un effetto cosciente. Come si conosce, allora, un oggetto? 

Il segreto della relazione tra il soggetto e l’oggetto sembra essere nascosto sotto la sua forma esteriore. Sono i sensi che ci dicono di aver avuto la conoscenza di un oggetto per mezzo dei raggi luminosi. Gli occhi da soli non possono vedere e i raggi di luce, da soli non possono rivelare l’oggetto. I raggi di luce possono essere lì, e l’oggetto può essere lì, ma se la mente è altrove, non la si può vedere. Oltre ai fattori strumentali, nella percezione qualcosa sembra essere necessario. La mente qui gioca un ruolo importante. Ora, la mente è una sostanza, un oggetto? O è intelligente? Il minimo che ci si potrebbe aspettare nella percezione è l’intelligenza. Possiamo supporre che la mente sia intelligente, così come possiamo dire che uno specchio brilla.
Anche se lo specchio non è ciò che veramente brilla, la mente non è intelligenza. Poiché è la luce che risplende e non lo specchio, è una coscienza trascendente che illumina anche la mente. 

Non è facile comprendere la natura di questa coscienza poiché essa stessa è la comprensione. Chi può spiegare ciò che sta dietro ogni spiegazione? È la conoscenza dietro ogni comprensione. Chi deve comprendere la comprensione? È la misteriosa realtà che è in noi, dalla quale sappiamo tutto, ma che non può essere conosciuta da nessun altro. Questa intelligenza, o coscienza, agisce sulla mente proprio come la luce su uno specchio.
La mente si riflette sull’oggetto come una parete può essere illuminata dal riflesso nello specchio. L’oggetto è localizzato dall’attività della mente e l’intelligenza in essa percepisce l’oggetto.
L’intelligenza non agisce direttamente; è focalizzata per mezzo della mente. Un raggio di intelligenza passa attraverso la lente della mente e si confronta con l’oggetto.
L’intelligenza vede l’oggetto attraverso la strumentalità della mente. In che modo l’intelligenza entra in contatto con la materia inconscia, che noi conosciamo come l’oggetto? Come può la coscienza conoscere un oggetto se non c’è una parentela tra loro? Ammesso che ci debba essere una tale parentela, non si può dire che sia una relazione materiale, come possono sostenere certe filosofie del materialismo, poiché la materia non ha comprensione. Non ha occhi e non ha intelligenza. 

Chi, allora, vede la materia? La materia non può vedere la materia perché è cieca. L’intelligenza, senza la quale tutto diventa privo di significato, è diversa dalla materia. È l’intelligenza che conosce anche l’esistenza della materia. Come entra in contatto con la materia se questa non ha una natura simile ad essa? La materialità non può essere il collegamento tra i due, poiché la materia non può essere collegata alla coscienza. A meno che la coscienza non sia nascosta nella materia, la coscienza non può conoscere la materia. La materia, alla fine, dovrebbe essere essenzialmente cosciente, se la percezione deve avere un significato accettabile. Dovrebbe esserci il Sé anche nel non-Sé, la coscienza dovrebbe essere universale, se la percezione deve essere possibile. 

Ma i sensi non possono vedere la coscienza universale. Vedono solo oggettività, esteriorità, cose localizzate. Proiettano falsamente un fantasma di “esteriorità” e creano un “oggetto” dalla realtà universale. L’oggetto è collegato artificialmente al soggetto. Quando i sensi visualizzano un oggetto esterno, che appare come qualcosa di materiale, si verifica un trasferimento di valori tra il soggetto e l’oggetto. Il Sé interiore, che è la coscienza universale, afferma la sua parentela con l’oggetto, ma, mentre lo fa attraverso la mente, c’è amore per l’oggetto. Ogni amore è l’affinità che l’universale sente con se stesso nella creazione. Questo amore universale viene distorto quando viene trasmesso agli oggetti attraverso i sensi.
Invece di amare tutte le cose allo stesso modo, amiamo solo certe cose, escludendo altre. Questo è l’errore della mente, l’errore nell’affetto quando viene trasmesso attraverso i sensi, senza una conoscenza del suo sfondo universale. Mentre l’amore spirituale è universale, l’amore sensoriale è particolare e genera odio e rabbia. Il desiderio individuale porta con sé la schiavitù. Il Sé viene scambiato per il non-Sé, e viceversa, nel senso che l’universale viene dimenticato e si localizza in certi oggetti e i sensi commettono l’errore di scambiare il non-eterno per l’eterno, l’impuro per il puro e dolore per piacere. Il pratyāhāra è molto aiutato da questa analisi, perché i sensi, con questa comprensione, si astengono dall’attaccarsi alle cose. 

L’intreccio dei sensi nei loro rispettivi oggetti e la loro connessione organica con gli oggetti è così profondo e forte che non è facile districare la coscienza dalla materia. Proprio come non si può togliere la pelle dal proprio corpo, è difficile svezzare i sensi dalle cose. Il contatto organico creato artificialmente tra i sensi e gli oggetti dovrebbe essere spezzato da vicāra o dall’indagine filosofica. Questo è uno stadio di vairagya o distacco per ciò che non è reale.
Non è necessario che in uno stato di pratyāhāra i sensi siano sempre attivi. Molte volte sembrano distendersi tranquillamente, eppure causano grande disturbo allo studente. Quando sono attivi in modo positivo, lo studente ne prende coscienza, ma, quando ricorrono a sotterfugi, è difficile percepirli. Le attività dei sensi hanno stadi o forme di manifestazione.
Un malfattore potrebbe mantenere il silenzio, ma ciò non significa che sia inattivo, perché potrebbe tramare una linea d’azione in cui desidera impegnarsi al momento opportuno.
A volte, le sue attività potrebbero essere ridotte a causa del lavoro della polizia e quando viene molestato da più parti. Quando è oberato di lavoro, potrebbe affaticarsi e in questa condizione, ancora una volta, potrebbe non fare nulla. Tuttavia, non ne consegue che sia libero dalle sue intenzioni sottili o che sia realmente libero dall’attività.
A volte può anche capitare che sospenda la sua attività per altri motivi come il matrimonio della figlia o la malattia del figlio. Questa sospensione dell’azione non significa anche una chiusura dei suoi piani. Quando tutte le circostanze saranno favorevoli, riprenderà il suo lavoro in pieno vigore. Questo è anche il modo di lavorare dei desideri. Possono essere addormentati, attenuati, interrotti o attivamente operativi. 

Quando dormiamo, dormono anche i desideri; riprendono le forze per ulteriori attività il giorno successivo. Inoltre si stancano e poi smettono di lavorare per un po’. Rimangono dormienti (prasupta) quando c’è frustrazione dovuta al funzionamento delle leggi della società, all’assenza di mezzi per l’adempimento o alla presenza di qualcosa che ostacola la soddisfazione. In caso di frustrazione, l’attività viene temporaneamente interrotta. Quando ci si trova in un ambiente che non favorisce l’espressione del desiderio, lo si sopprime con la volontà, ed ecco che si è in una condizione di sonno indotto. 

Nel pralaya cosmico o nella dissoluzione finale, quando tutti gli individui vengono avvolti in uno stato causale dell’universo, i sensi con i loro desideri giacciono latenti; rimangono in una forma di seme. I desideri non sono del tutto ciechi, perché sanno creare le circostanze per la loro espansione e realizzazione. Anche l’istinto ha intelligenza. A volte l’intelligenza viene soffocata dall’istinto.
L’intelligenza spesso giustifica l’istinto e ne accentua l’opera. Sebbene questa possa essere una delle condizioni del desiderio nelle persone comuni, si assottiglia e diventa filiforme nel caso degli studenti di yoga.
La Sādhanā attenua il desiderio, lo rende debole, sebbene non sia facilmente distrutto. Il desiderio perde un po’ di forza alla presenza del Guru spirituale, all’interno di un tempio o di un luogo di culto, perché non è l’atmosfera per la sua esibizione. Questa è un’altra condizione del desiderio, dove rimane debole o sottile (tanu). 

C’è un terzo stato del desiderio, dove può essere occasionalmente interrotto (vichhinna) nelle sue attività. Si può amare il proprio figlio, ma ci si può arrabbiare con lui per un errore commesso o per un suo comportamento sgradevole. Qui l’amore per il figlio non è svanito ma è temporaneamente sospeso in uno stato determinato da circostanze passeggere. Questo accade spesso tra marito e moglie. L’amore è soppresso dall’odio e l’odio dall’amore a causa di situazioni che possono sorgere di tanto in tanto nella società. Per il momento, l’oggetto dell’affetto può sembrare uno di odio.
Tra le scimmie vediamo che la mamma-scimmia non permette al suo bambino di mangiare e può anche strappargli dalla bocca il pezzo di pane che ha.
Questo non significa che la scimmia odi il bambino e possiamo anche osservare l’estensione dell’attaccamento che la madre-scimmia ha per il suo bambino.
L’amore e l’odio sono condizioni psicologiche misteriose e non possiamo sapere dove ci troviamo in un dato momento fino a quando non siamo fortemente contrastati da forze contrarie. 

A volte ci si sente depressi e altre volte si è in uno stato d’animo di gioia. C’è spesso abbattimento e malinconia. Piccoli eventi infelici mettono facilmente fuori gioco le persone, anche se per tutto il tempo avrebbero potuto essere felici. Improvvisamente, inoltre, possono essere euforiche a causa di alcune gioiose notizie loro comunicate. Queste sono onde che sorgono nel lago della mente a causa del movimento del vento del desiderio in diverse direzioni.
La mente danza al ritmo dei sensi. Ci sono stati casi in cui i ricercatori, per molto tempo, sono sembrati essere persone controllate dai sensi e poi hanno iniziato a dedicarsi ad attività indesiderate.
A volte, quando nessun progresso è tangibile, si può pensare che i propri sforzi siano andati tutti sprecati; ma poi all’improvviso si può realizzare anche una grande gioia. Questo è successo nel caso del Buddha. Ha perso le speranze anche il giorno precedente a quello della sua illuminazione. Aveva deciso che la sua fine era giunta. Ma il giorno dopo la bolla scoppiò e spuntò la luce. 

I ricercatori possono scendere o salire lungo il sentiero tortuoso come una strada collinare, con molte discese e salite. Lo studente di yoga dovrebbe essere vigile e non dovrebbe prendere decisioni o esprimere giudizi osservando giorno per giorno gli stati d’animo della mente. Le cose possono sembrare a posto per un po’; ma successivamente potrebbe esserci anche un ciclone di emozioni, che infrange le proprie speranze e aspettative.
Questa è la guerriglia che i sensi del desiderio intraprendono quando si cerca di controllarli o di limitare la loro attività. Quando osserviamo costantemente i sensi, mostrano risentimento e reagiscono e vogliono saltarci addosso. Nessuno tollera la restrizione della propria libertà. Qualunque sia la condizione del desiderio – sonno, attenuazione o interruzione – è ancora presente e non se n’è andato. Può guadagnare forza in un momento conveniente. 

Possiamo continuare a versare acqua sul fuoco allo scopo di estinguerlo, ma se rimane una scintilla, anche se il grande incendio viene spento, può creare di nuovo un’enorme conflagrazione. Questo accade spesso nelle foreste, con un piccolo ceppo di legno che brucia in un angolo. La scintilla che rimane si manifesta in un momento opportuno. Sebbene il desiderio possa essere sottile, non viene distrutto e diventa potente quando si presentano le circostanze adatte. Il desiderio, quando è posto in circostanze interamente favorevoli, diventa pienamente attivo (udara) e quindi non si può fare nulla con esso, come con l’incendio di una foresta selvaggia. Le fiamme furiose non possono essere spente con un secchio d’acqua.
La piccola discriminazione dello studente si estinguerà a causa della potenza del desiderio. Il mondo intero è fuoco, disse il Buddha. L’esperienza è il fuoco del desiderio; gli occhi sono questo fuoco ardente, le orecchie e gli altri sensi ardono di desiderio. La mente e le facoltà sono state catturate da questo fuoco.
Il mondo è una fossa ardente di carbone ardente, secondo il Buddha. Le quattro condizioni menzionate sono solo un’ampia divisione del funzionamento del desiderio. Ma ha molte altre forme in cui può nascondersi o agire. La mente crea in sé certi meccanismi per difendersi dagli attacchi dello yoga.
Scappa dal punto in cui può essere osservato e lo studente potrebbe mancare la mira. E può seguire una qualsiasi delle quattro tecniche già menzionate. Può deviare completamente la sua attività lungo un altro canale. Questo è uno dei meccanismi di difesa della mente. Se lo studente, in uno stato mentale superiore, osserva che la mente inferiore è attaccata a un oggetto, attiverà naturalmente una vigilanza su di esso.
Ma [la mente] impiega un espediente accorto per rinunciare a quell’oggetto e aggrapparsi abilmente a qualcos’altro, creando così l’impressione che l’attaccamento sia scomparso. Gli amori si spostano da un centro all’altro.

 Lo studente potrebbe trovarsi nel paradiso degli sciocchi, se qui non si esercita la dovuta cautela. Potrebbe pensare che l’affetto si sia spezzato, mentre è duro come prima, solo fissato in un altro centro. Il fiume ha preso un corso diverso e sta inondando un altro villaggio. Quando si insegue una tigre, non si sa su chi si avventa. La mente può ricorrere anche ad un altro metodo, diverso da questa tecnica comune. Se uno è persistente nell’individuare il desiderio ovunque vada, potrebbe smettere di andare verso qualsiasi oggetto esterno, ma contemplare internamente il fine desiderato.
Se tutte le altre vie sono ostruite, può esserci il godimento di un oggetto interiore. Si possono immaginare gli oggetti e acquisire una soddisfazione psicologica quando tutti gli altri canali sono bloccati. Se il meglio non è disponibile, la mente ottiene soddisfazione nel meglio successivo, e se non viene dato nulla, godrà del suo oggetto nel pensarlo.
Se la vigilanza arriva al punto di osservare anche questo, la mente cercherà di manipolare se stessa proiettando i suoi caratteri negativi su certe persone o oggetti. 

Se una piccola scimmia è inseguita da una più grande, la prima emetterà un cinguettio e attirerà l’attenzione e il sostegno delle altre scimmie verso qualcuno vicino, e poi l’intero gruppo si orienterà congiuntamente un attacco alla terza parte, in modo che la scaramuccia originale viene dimenticata spostando l’attenzione. Ci sono persone che cercano di diventare virtuose evidenziando i difetti degli altri. Le persone piccole diventano grandi lanciando calunnie sulle anime nobili.
Meraviglioso è l’inganno della mente. La condizione del desiderio troverà un punto malvagio in qualcuno o qualcosa, con insoddisfazione e disgusto della mente vigile, e quindi devierà l’attività di quest’ultima. Si potrebbe qui diventare più consapevoli dei difetti dell’ambiente esterno che di ciò che sta accadendo all’interno. Nel frattempo la mente inferiore si fa strada. Sogni, fantasie, costruire castelli in aria, scorgere difetti all’esterno, sono alcuni dei meccanismi di difesa che sfuggono alla presa dell’intelligenza vigile. Quali che siano i propri sforzi per soggiogare la mente, lo stesso non sarà mai troppo di fronte all’impetuosità dei sensi. 

La Bhagavadgītā dà un avvertimento quando dice che la forza dei sensi può travolgere come un turbine e portare via la propria [capacità di]comprensione. Il Manusmṛti dice che i sensi hanno un tale potere che possono fuorviare dalla retta via anche la mente di un uomo saggio. Il Devīmāhātmya dice che maya può attrarre con la forza anche le menti di coloro che hanno elevata conoscenza. Nel pratyāhāra, le reazioni sono spesso predisposte e lo studente può spaventarsi per ciò che sta accadendo.
Patañjali, nei suoi Yogasūtra, descrive in modo dettagliato le difficoltà. Oltre ai pericoli positivi menzionati sopra, ci sono alcuni altri tipi di problemi negativi che si presentano. La malattia (vyādhi) può colpire una persona a causa del mangiare indiscriminato, della pressione esercitata sui prāna durante la pratica, dell’esposizione indebita, dello sforzo eccessivo, ecc. La malattia è un grande ostacolo nello yoga. 

La malattia può essere fisica o psicologica, generata dalla propria disobbedienza alla Natura o dalle reazioni alla propria pratica. Può così accadere che lo studente si stufi di tutto dopo anni di pratica e concluda che tutte le cose sono inutili. Entra in uno stato d’animo di sconforto (styāna). Potrebbe iniziare a pensare di essere solo e non c’è nessuno che lo aiuti.
Questo pensiero può diventare così intenso che potrebbe non essere in grado di pensare all’ideale davanti a lui. Esteriormente, ci possono essere debolezza, mal di testa ricorrente e insonnia. Potrebbe non dormire per giorni. Potrebbe svilupparsi dolore nel corpo e assenza di appetito per il cibo. Lo stomaco può perdere la forza di digerire qualsiasi cosa. Queste sono reazioni temporanee del prāna e della mente durante il processo di controllo.
Sono fasi passeggere di cui non bisogna allarmarsi. A causa della concentrazione della mente su una linea particolare (non concentrazione spirituale ma attenzione concentrata su uno sforzo particolare) si possono avere occasionali sensazioni fastidiose. Questi sono sintomi esteriori che possono infastidire lo studente per un tempo considerevole. 

Pratyāhāra è, in un certo senso, una lotta tra la natura interiore e quella esteriore. Questo dovrebbe spiegare il motivo delle reazioni.
La guerra interna è complicata quanto quella esterna e ci sono tante manovre impiegate all’interno quante nelle guerre esterne.
Le battaglie interiori sono più difficili da vincere di quelle esteriori, perché all’esterno possono essere impiegate diverse persone e strumenti, mentre all’interno non sono disponibili tali cose. La guerra interiore è perpetua, senza sosta.
Una tregua sembra essere dichiarata solo nel sonno, nello svenimento e nella morte. Può verificarsi uno stato di languore del corpo in cui non si può sedere nemmeno in un āsana. Lo studente si sente stanco anche della meditazione. L’ottusità che insorge può rallentare tutte le cose e si inizia a prendere le cose con calma senza l’entusiasmo e il vigore con cui è iniziata la pratica.
Questo accade dopo alcuni anni di sforzi. 

Styāna è una condizione di lentezza del corpo e della mente. Anche una sorta di dubbio (saṃśaya) può iniziare a tormentare la mente perché non ci sono progressi palpabili nella sādhanā. Non si sa quanto sia lontana la destinazione. Lo studente arranca ma non conosce la distanza percorsa. Non esiste una mappa-guida per indicare la distanza ancora rimanente.
L’incapacità di sapere dove ci si trova crea incertezza nella mente. I dubbi possono insinuarsi anche per lo studio di troppi libri di varia natura scritti da autori diversi, ognuno dei quali dice qualcosa di diverso dall’altro.
È difficile che si diventi un buon giudice della moltitudine di idee servite dalla letteratura contrastante. L’assenza di una corretta comprensione della propria  posizione reale è causa di dubbio, a causa della quale si cambia il luogo di residenza, si cambia il proprio Guru, si cambia il proprio mantra, si cambia il modo di meditare, ecc. Questi cambiamenti sono fatti con la speranza che da loro seguirà qualche risultato considerevole. 

Ma nella mutata condizione ci si ritrova dove si era e si sente la necessità di fare un ulteriore cambiamento.
Non è facile rendersi conto di dove stia il vero errore. Un carattere così discutibile è un ostacolo nello yoga. Le reazioni che la mente ei sensi producono assumono molte forme e l’instabilità della mente, per cui non ci si attacca a nessuna cosa o luogo ne è un esempio.
L’aderenza a una cosa è anche una grande concentrazione di attenzione e quindi la difficoltà nella sua pratica.
La mente si stanca di vedere le stesse persone, lo stesso posto e le stesse cose. C’è desiderio di varietà dovuto al disgusto per la monotonia. Questo è il risultato del dubbio, a causa del quale lo studente si perde nel deserto della vita.
Lo stato mentale in cui è instabile e confuso dalla disattenzione (pramāda) è un altro ostacolo. 

I dubbi sorgono a causa della negligenza nel pensare. Lo studente ha fatto entrare il nemico mentre dormiva e si sveglia quando il nemico si è già impossessato di lui. A causa della mancanza di vigilanza, la calamità si è abbattuta su di lui. Una volta che siamo convinti della validità della pratica e della competenza del Guru, che bisogno c’è di cambiare? Come è successo? È successo perché non si aveva una convinzione [determinata]nemmeno prima. Una fede che può essere scossa non può essere chiamata convinzione; è solo un’accettazione temporanea senza un giudizio adeguato. Nessun successo in nessun ambito della vita è possibile senza una corretta valutazione dei valori. Sarebbe sciocco andare a capofitto senza considerare una situazione da tutte le parti, con i suoi pro e contro. 

Non è bene entrare in uno stato d’animo emotivo nello yoga, perché lo yoga non è uno stato d’animo della mente. Lo yoga è una pratica costante in cui è dedicato tutto il proprio essere. Lo studente dovrebbe essere saldo nelle sue opinioni e sostanziale nel nucleo della sua personalità. Non dovrebbe ridursi a una persona sciocca che può essere cambiata dalla vuota logica delle persone.
La comprensione dello studente deve essere abbastanza potente da resistere e superare l’argomentazione dei sensi. Una volta ascoltata la richiesta dei sensi, crederà nella realtà delle circostanze esterne piuttosto che nel significato interiore dello yoga.
Pramāda, o negligenza, è veramente la morte, dice Sanatkumāra, il saggio, a Dhṛtarāṣtra.
La disattenzione è morte; la vigilanza è vita. Questo è particolarmente vero nel caso dei ricercatori spirituali. Una sorta di letargia (alasya) nell’intero sistema, fisico e mentale, si pone come un altro ostacolo. Non si farà alcuna meditazione, ma ci si abbasserà solo nell’ozio. Questo è il mohana-astra o l’arma illusoria lanciata contro la mente che cerca nella sua guerra con il desiderio. 

La letargia paralizza l’azione della mente a tal punto che la mente in questo stato non può nemmeno pensare. Il potere del pensiero scompare, tamas si insinua e si diventa di natura torpida. Lo Yogavāsiṣṭha dice: “Se non fosse per l’ozio, la grande catastrofe, chi non riuscirebbe a guadagnare ricchezze o a imparare?” Ancora una volta, questa condizione letargica non deve essere confusa con una mera inattività del corpo e della mente.
È piuttosto una preparazione per un’attività contraria che deve avvenire dopo un certo tempo, ed è paragonabile al cielo nuvoloso, dall’aspetto cupo e silenzioso, prima dello scoppio di tuoni e fulmini. Proprio come la mancanza di appetito è solo un indicatore che il corpo si ammalerà, la letargia è un’indicazione che sta per accadere qualcosa di negativo. Stare zitti, non dire nulla, non fare nulla, è pericoloso per lo studente di yoga.
Non si sa quando scoppierà la bomba. Il torpore è un terreno fertile per la malizia dei sensi e la loro cricca.
Prima paralizzano la persona con la letargia e poi la colpiscono con l’eccitazione sensuale (avirati).
È più facile uccidere una persona quando è incosciente. Lo studente viene addormentato da tamas,  poi segue una violenta attività dei sensi. Il vento ciclonico si è alzato dal tempo polveroso. 

La mente salta nell’indulgenza di vari tipi e questo è ciò che chiamano una “caduta” nello yoga. Essendo caduti in questa condizione, scambiarlo per un risultato nello yoga è davvero peggio. Questo scambiare l’illusione per il successo è l’altro ostacolo, l’illusione (bhrāntidarśana) per cui si pensa di progredire verso l’alto mentre [in realtà]si cade. I sensi ti spingono a ballare sulle loro melodie e dai sensi si viene anche indotti all’ipnosi. Anche se, per caso, si riprende coscienza da questa condizione indesiderata in cui si è stati condotti, non è facile riconquistare il terreno un tempo perduto. 

Perdere terreno (alabdhabhumikatva) è un ulteriore ostacolo nello yoga. Non si può ricominciare la pratica con facilità, a causa dei saṃskāra creati dal devastante lavoro dei sensi durante lo stato di gratificazione. La mancanza di capacità di scoprire il punto di concentrazione (anavasthitatva), anche se il terreno deve essere guadagnato con difficoltà, è di nuovo un serio ostacolo.
Le nove condizioni sopra menzionate sono alcuni dei maggiori ostacoli nello yoga, oltre alle complessità psicologiche a cui si è già fatto riferimento. Causano lo sballottamento della mente e il suo allontanamento dal sentiero. Qui lo studente deve essere cauto. Ma ci sono alcuni altri ostacoli minori, di cui almeno cinque possono essere nominati come i principali. Uno di questi è il dolore (duḥkha) che si impossessa del ricercatore. 

C’è un senso di dolore interno che lo infastidisce costantemente. “Dove sono, e cosa sto facendo”, è il suo silenzioso dolore. È tutto buio e non c’è luce visibile all’orizzonte. Questo provoca una depressione emotiva (daurmanasya) e si diventa malinconici.
Non si vede niente di buono in niente e nessun significato o valore nella vita.
La vita perde il suo scopo ed è tutto un inseguimento selvaggio. Dopo tanto sforzo nella pratica dello yoga, questa diventa la conclusione. Questo è il punto in cui a volte il ricercatore raggiunge, una condizione ben descritta nel primo capitolo della Bhagavadgītā. “È tutto senza speranza” sembra essere il grido di Arjuna. Questo è anche il grido di ogni Arjuna nel mondo, di ogni uomo, di ogni donna e di chiunque ruoti nella ruota della vita. 

Mentre si cerca di recuperare le forze facendosi coraggio, subentra il nervosismo (angamejayatva). Il corpo trema e non ci si può sedere per meditare. Lo studente è nervoso perché qualcuno dice qualcosa su di lui, e così via.
C’è anche l’incapacità di tollerare tutto ciò che accade nel mondo. Si sviluppa la sensibilità a tal punto che anche un piccolo evento sembra di enorme importanza.
C’è tremore e flusso irregolare del prāṇa. L’inspirazione e l’espirazione irregolari e aritmiche (svāsa-prasvāsa) disturbano il sistema nervoso e, indirettamente, la mente.

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