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Śrī Svāmī Kṛṣnānanda
Pratyāhāra: il ritorno dell’energia

Traduzione autorizzata dalla Divine Life Society, tratta da:  Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, The Study and practice of Yoga, an exposition of the Yogasūtras of Patañjali, Volume II, Chapter 80.Pratyāhāra: The Return of Energy, ã tutti I diritti riservati, The Divine Life Society, Śivanandanagar (Rishikesh), India, 2007; pgg. 316-326. www.dlshq.org

foto di krishnananda seduto

Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, fonte: https://www.swami-krishnananda.org/gallery_01.html

Quando sorge nella mente l’inclinazione per la concentrazione, nel proprio sé si farà sentire un grande cambiamento. Interiormente si manifesterà un nuovo stato d’animo e sembrerà che tutto il mondo stia cambiando i suoi colori e le sue relazioni. Quando sorge nella mente questa inclinazione alla concentrazione, si avrà una completa conferma della natura dei propri sentimenti. Dobbiamo ricordare l’importanza di questo sūtra, dhāraṇāsu ca yogyatā manasaḥ (II.53) , che significa che dovrebbe esserci la preparazione mentale o l’esser pronti per la concentrazione, poiché una semplice spinta della volontà non può portare alla concentrazione. Ogni fase dello Yoga, ogni passo nella sua pratica, è una crescita salutare e non un qualsiasi tipo di pressione da qualsiasi parte. 

Pertanto, è un’ascensione molto graduale perché l’inclinazione naturale non emerge rapidamente, a causa della presenza di altre impressioni nella mente. Quindi, se teniamo in mente il significato dei primi passi citati –  da Yama in poi, fino a Prāṇāyāma – saremo in grado di comprendere i tipi di preparazione che dobbiamo fare per ottenere la capacità della mente di concentrarsi. La maggior parte di noi non è pronta per la concentrazione e se chiediamo alla mente di concentrarsi quando non è preparata, come potremo eseguire la pratica? Quando lo stomaco non è pronto, non siamo neppure in grado di consumare il pasto. Quando il sistema non pronto, non si può fare nulla, non possiamo neanche camminare, né possiamo dormire, mangiare, parlare se non siamo pronti per queste cose. Per ogni azione, funzione o comportamento, dovrebbe esserci una prontezza del sistema – una preparazione, uno stato d’animo, una tendenza, un’inclinazione. Mentre così è nel caso di varie altre funzioni vitali, lo è molto di più nel caso della concentrazione in cui la prontezza non è richiesta semplicemente da una parte o aspetto del sistema, ma dal sistema totale. 

Com’è possibile che tutti saranno d’accordo su un singolo punto? Accade raramente. La maggioranza può essere d’accordo; la minoranza potrebbe non essere d’accordo. Ma, qui, non vogliamo semplicemente una maggioranza. Dovrebbe essere pronta la totalità  delle forze del sistema. L’intero esercito dovrebbe essere pronto all’azione; non un soldato dovrebbe darsi malato. Non una cellula del corpo dovrebbe essere riluttante. Questa è ciò che viene definita preparazione alla meditazione. Se è pronto l’intelletto, l’emozione non è pronta. Se l’emozione è preparata, l’intelletto non comprende. Se entrambi sono pronti, la volontà non funziona. Se va tutto bene, siamo malati. Se questo è il caso, come mediteremo? È difficile far si che tutte le cose funzionino insieme. Questa è davvero una grande difficoltà. 

Cosa, se non questa, può essere definita una difficoltà nella vita? Se tutto fosse andato bene, saremmo in paradiso in questo preciso momento, ma sfortunatamente ciò non accade. Una cosa o l’altra non si attiverà correttamente, quindi la macchina non si muoverà. Anche in questo caso, tutto deve muoversi e attivarsi in modo ordinato, spontaneo, non con la forza o la pressione. Guarda quante condizioni sono previste. Tutto deve essere preparato. Un elemento è che corpo, mente e spirito siano pronti per l’azione tutti insieme – nella completezza, con  forte desiderio. L’altro elemento e che si dovrebbe essere liberi dalla pressione. Non possiamo prendere una medicina per provocare la prontezza del sistema alla meditazione, perché in tal caso il sistema non è pronto – lo stiamo frustando. 

Frustare non può essere definita prontezza. Se diamo un colpo al cavallo che non è in grado di tirare il carro, salta a causa della frustata, ma la chiamiamo azione spontanea? Il risultato sarebbe il carro capovolto dal calcio dato dalla reazione del cavallo. Se applichiamo la forza con un farmaco o qualsiasi tipo di stimolante, anche una volontà forzata è solo una specie di stimolante, e anche tali stimolanti non sono ammessi. Se applichiamo questi freni a un treno in rapido movimento, ci sarà una catastrofe. Pertanto, molto saggiamente, Patañjali utilizza il termine ‘yogata’. Yogata significa che  dovrebbe esserci l’idoneità alla concentrazione. Siamo in forma? Qual è il significato di “forma”? Siamo spontanei nella nostra azione? Una domanda è questa. 

Oppure siamo costretti da qualcuno? Se dietro la seduta di meditazione c’è un motivo di costrizione, ci sarà un contro-impulso della mente a tornare alla sua posizione originale, dov’era in precedenza. Se siamo costretti a lavorare in un ufficio, sappiamo per quanto tempo lavoreremo. Cercheremo la prima opportunità di uscire da quel posto. Vogliamo essere fuori il prima possibile, non appena cessa l’influenza della pressione. Inoltre, a causa della pressione, la qualità del lavoro diminuisce. La quantità è inferiore e la qualità è nulla; questo accadrà in meditazione se la forziamo. 

Quindi, dovrebbe esserci da parte nostra una volontà, generata della soddisfazione che proviamo, dovuta al riconoscimento del valore di ciò che stiamo per compiere. Prima di tutto, è difficile vedere il valore, qualunque sia la nostra aspirazione. Non possiamo riconoscere o visualizzare l’intero valore della meditazione, perché se si vedesse il suo intero valore, sarebbe impensabile [concepire] come la mente possa tornare indietro da esso. Come potremmo spiegare [il fatto che] la mente torna indietro da un tesoro pieno di risorse che ha scavato [scoperto] e fatto proprio? Ma [la mente] non è in grado di riconoscerne il valore. È come una scimmia che vede un enorme tesoro; non ne conosce il valore. È semplicemente come un enorme e pesante materiale; non ha significato. Analogo sarebbe l’atteggiamento di una mente impreparata, e quindi ci sarebbe una conseguente repulsione. Non si realizzerebbe lo stato yogata o preparazione.

Svaviṣayāsamprayoge cittasya svarūpānukāra ivendriyāṇāṁ (II.54). Quando questo Significato, o valore, nell’oggetto della meditazione è correttamente riconosciuto, si verifica un automatico distacco dei sensi dai loro oggetti. Il veicolo dell’oggetto è separato dalla sua relazione con il motore, che è rappresentato dai sensi, quindi gli oggetti non si muoveranno, perché c’è assenza di movimento dei sensi rispetto agli oggetti. ‘Svaviṣayāsamprayoge’  è il termine utilizzato nel sūtra che definisce il Pratyāhāra, che è il primo passo della parte centrale dello yoga. Si verifica la separazione dei sensi dal contatto con gli oggetti, il che è davvero qualcosa di molto strano, perché non è facile comprendere  il Significato [sottile] di “contatto”. Il contatto è diverso dall’unione, che è lo scopo dello yoga. Lo scopo ultimo dello yoga è una sorta di fusione di coscienza nell’oggetto che contempla. Questa è la vera unione alla quale aspiriamo. 

Ma i sensi, quando contemplano un oggetto, non dovrebbero essere in unione con l’oggetto; questa è la differenza. Se i sensi sono uniti, che cosa stiamo cercando di fare separandoli dagli oggetti? Non c’è unione dei sensi con il loro oggetto quando lo contattano. ‘Contatto’ e ‘unione’ sono due cose diverse. Quando la luce del sole cade su una pentola tenuta fuori al sole, la pentola viene illuminata dalla luce del sole; quindi, siamo in grado di visualizzare la presenza della pentola al sole. La pentola brilla a causa della luce che è caduta su di essa, diventando con essa quasi una cosa sola. Non possiamo separare la luce del sole dalla pentola su cui è caduta e che  è illuminata. Tuttavia, sappiamo che la luce non è mai diventata la pentola; è abbastanza diversa dalla pentola o dall’oggetto che illumina. 

Possiamo dire che la luce del sole è entrata nella pentola  unificandosi, unendosi e diventando tutt’uno con essa? Niente affatto. C’è solo un contatto, anche se può sembrare un contatto inseparabile, che è davvero il caso. Quindi ciò che non possiamo distinguere nettamente, l’uno dall’altro, è il contatto della luce con l’oggetto. Iniziamo affermando che il vaso brilla; questo è ciò che diciamo normalmente. Ciò che splende è la luce, non la pentola. Ma l’identità è tale, a quanto pare, che sembra che l’oggetto stesso brilli, e quindi siamo in grado di percepire la presenza dell’oggetto alla luce del sole. Simile è il caso del contatto dei sensi nei confronti dei loro oggetti. Non si uniscono con l’oggetto. Se c’è una vera unione, come può esserci separazione? Come può esserci una privazione/perdita? Come può esserci pena/dolore come nel perdere il possesso  dell’oggetto amato? Non c’è mai stata un’unione, c’era esclusivamente un contatto. 

Questo contatto è, in realtà, il contrario di ciò a cui i sensi mirano attraverso quel mezzo che adottano nella cognizione di un oggetto. L’intenzione dei sensi non è la medesima di ciò che sta realmente accadendo in quel caso. L’intenzione dei sensi rispetto al loro oggetto è di volerlo afferrare, assimilare, farlo proprio, rendendo in tal modo  l’oggetto parte del proprio essere. Sebbene questa sia l’intenzione, ciò non avverrà per determinati motivi. Quello che succede in realtà è che i sensi sono respinti dalla struttura dell’oggetto. Volendo, potremmo chiamarla una repulsione elettrica,  proprio come c’è la repulsione percepita dal senso tattile quando c’è il contatto del senso con l’oggetto fisico. 

Ciò che chiamiamo il senso del tatto delle dita, ad esempio, tramite il quale sentono la solidità di un oggetto, non è in realtà un’unione del senso tattile con l’oggetto, ma è una sorta di repulsione prodotta dal particelle di materia che costituiscono l’oggetto che sono elettricamente cariche, come pure le particelle che costituiscono la struttura della punta delle dita o le terminazioni nervose. Ciò produce un diverso tipo di reazione, ad esempio l’unione del positivo con il negativo. Ma qui, positivo e positivo si stanno respingendo. Esiste un tipo di repulsione elettrica prodotta dalla natura dell’oggetto e dal funzionamento dei sensi, sebbene questa medesima repulsione a volte assomigli a una condizione soddisfacente a causa di un’idea sbagliata di ciò che sta realmente accadendo. 

Supponiamo di essere presi a calci e di cadere in una pentola di miele; la chiamiamo una grande soddisfazione? Bene, siamo caduti in una pentola di miele; ma siamo stati presi a calci e per questo ci siamo finiti dentro. Allo stesso modo, questi sensi vengono presi a calci dall’oggetto. Ma pensano di essere caduti in un vaso di miele; e lo stanno leccando, non sapendo che, in realtà, era davvero immeritato. L’intenzione era abbastanza diversa. L’unione cui si tende e che si desidera raggiungere nello yoga non è di questa natura. Pertanto, nella misura in cui l’unione non viene raggiunta nel contatto dei sensi con gli oggetti, il difetto, che è la causa di questa repulsione e della soddisfazione errata che sorge a causa di questo contatto, deve essere riconosciuto. A questo scopo i sensi devono essere preventivamente separati dagli oggetti. Questo processo è chiamato Pratyāhāra. Quello che accade in Pratyāhāra è descritto nel sūtra:

svaviṣaya asaṁprayoge cittasya svarūpānukāraḥ iva indriyāṇāṁ pratyāhāraḥ (II.54).
Ci sono due cambiamenti che avvengono in questa azione dei sensi nella loro astrazione dagli oggetti. Innanzitutto, sono scollegati dal contatto con l’oggetto a causa del ritiro della coscienza che sta animando i sensi. In secondo luogo, che è più importante, i sensi si ritraggono nella mente e ne assumono le caratteristiche. “Cittasya svarūpānukāraḥ” significa “i sensi che accompagnano la mente nella sua natura essenziale”. Diventano quasi tutt’uno con la mente. 

Nella loro attività normale, i sensi non sono uniti alla mente. Trascinano la mente fuori dalle proprie stanze e poi la costringono a contemplare un oggetto esterno, nel qual caso la mente è qualcosa di simile a uno schiavo dei sensi; il padrone stesso si trova sotto la soggezione dei servi. Ma nel Pratyāhāra  questo non è ciò che accade. Il Maestro è riconosciuto e il suo valore è noto. I sensi ritornano [alla mente]. Non ritornano di propria iniziativa. Se la benzina è completamente rimossa dal motore, il veicolo non si muoverà. La benzina è la forza motrice, e quella forza motrice è la Coscienza che partecipa all’attività dei sensi. Se la fornitura di energia che è dietro il movimento di un veicolo viene interrotta, il veicolo è impossibilitato a muoversi. Fino a quando sarà alimentato con la benzina, il veicolo non può essere fermato. Si può dire che il veicolo rappresenti i sensi che corrono verso un obiettivo. 

Non possono essere fermati nelle loro attività a meno che l’alimentazione  non venga interrotta. Quell’energia è la Coscienza. Quindi, prima di tutto, ciò che è richiesto è una separazione dell’attenzione della Coscienza rispetto al movimento dei sensi verso gli oggetti. L’attenzione è deviata. Questo è il motivo per cui a volte, quando riflettiamo profondamente su una questione importante, anche se possiamo guardare qualche oggetto, potremmo non vederlo. I nostri occhi potrebbero essere aperti; può sembrare che stiamo guardando qualcosa, ma non stiamo vedendo nulla a causa del fatto che l’energia necessaria per la conoscenza di un oggetto viene ritirata. Non può esserci percezione quando l’attenzione è deviata in qualche altro modo. Quindi, nel Pratyāhāra c’è prima una deviazione dell’attenzione da un luogo ad un altro. 

Dobbiamo scoprire cos’è quel posto, che costituisce l’oggetto della meditazione. In questo ritiro della Coscienza dal suo movimento lungo le linee dei sensi, ciò che accade è che essa ritorna alla fonte originaria. In questo momento sarà difficile distinguere tra i sensi e la mente. I sensi e la mente diventano uno. Qui, la mente diventa potente perché quando spegniamo tutte le luci, tutti i ventilatori e tutto il dispendio di energia elettrica viene interrotto  spegnendo  tutti gli interruttori, vediamo che la centrale elettrica sente immediatamente lo sbalzo di energia. L’energia ritorna alla centrale elettrica perché abbiamo spento tutti gli interruttori; non c’è dissipazione di energia. 

Tutte le fonti del movimento esterno di energia sono recise a causa dello spegnimento degli interruttori; naturalmente, l’energia alla fonte deve aumentare, vedremo l’indicazione dell’aumento dei kilowatt negli strumenti della centrale elettrica. L’ingegnere della centrale scoprirà che le persone hanno spento tutti gli interruttori, perché il consumo di energia è diminuito. Così è il caso del Pratyāhāra. È lo spegnimento di tutti gli interruttori di azione dei sensi, che provocavano un dispendio di energia. I sensi che entrano in contatto con gli oggetti è analogo all’accendere l’interruttore: la ventola è in funzione, la luce funziona, il frigorifero funziona, tutto funziona e così tutta l’energia è dissipata. 

A volte, a causa dell’intensa attività dei sensi, può essere impossibile per la centrale fornire l’energia richiesta. Quando ciò accade, la connessione viene interrotta. Che cosa succede a quell’energia che veniva spesa attraverso l’attività sensoriale, che veniva utilizzata per la percezione, la cognizione delle cose e il godimento degli oggetti? Cosa succede a quell’energia? Torna indietro, ritorna alla fonte da cui è stata generata, da dove è stata condotta all’esterno attraverso  il mezzo costituito dai sensi. Poi c’è un aumento o un ampliamento di energia all’interno – improvvisamente aumenta e, per così dire, trabocca. La mente sentirà dentro di sé un nuovo tipo di benessere, dovuto all’esuberanza di energia ricevuta, causata dal ritorno delle energie, attraverso i canali dei sensi, dai punti degli oggetti verso i quali [i sensi] si stavano muovendo in precedenza. 

Questo è il significato del termine “cittasya svarūpānukāraḥ”: l’energia che ritorna alla centrale elettrica a causa dell’interruzione del contatto con i punti di utilizzo. Poi si diventa potenti, forti, infaticabili, carichi di energia, con un nuovo tipo di leggerezza spirituale, lucidi nell’espressione: ciò grazie all’energia immagazzinata in se stessi piuttosto che essere diretta verso l’esterno e dissipata attraverso il contatto. Quindi i sensi sono scollegati dal contatto con gli oggetti: questo è uno dei risultati che ci si aspetta in questo caso, ed è  raggiunto.  In secondo luogo, l’energia ritorna a causa di questa disconnessione: questo è Pratyāhāra. Svaviṣaya asaṁprayoge e cittasya svarūpānukāraḥ costituiscono i due elementi essenziali che sono definiti rispetto alla pratica del Pratyāhāra.

Tataḥ paramā vaśyatā indriyāṇām (II.55).
Diventiamo quindi i Maestri supremi dei sensi e possiamo indirizzarli ovunque desideriamo. I sensi non ci costringono più ad agire contro il nostro desiderio, non ci rendono più marionette nelle loro mani, in ragione del controllo acquisito sulle loro attività. Ma questo parama vaśyatā, il grande dominio che si ottiene sulle attività sensoriali, si guadagnato con uno grande e duro sforzo. È necessario uno sforzo molto intensamente faticoso, forse per anni, per ottenere questo tipo di dominio sui sensi. Pensiamo che i sensi torneranno automaticamente dai loro oggetti; ma non ci ascolteranno. Sono molto potenti e se parliamo con loro, ci mostreranno semplicemente i loro pollici. Richiede perseveranza, tenacia e sforzo instancabile, giorno dopo giorno, facendo la stessa cosa, anche se potremmo fallire nel nostro tentativo. Ciò non significa che ogni giorno ci riusciremo. Un giorno ci ascolteranno e per dieci giorni non ci ascolteranno. Quindi sembrerà che il nostro sforzo sia stato un fallimento. 

Ci lamenteremo: “Qual’ è il mio problema? Sto lottando da dieci giorni; non sta accadendo nulla. “Ma l’undicesimo giorno potrebbero darmi ascolto. Questa è la peculiarità di questi sensi e della mente, quindi non ci si dovrebbe scoraggiare. Che questo stato d’animo malinconico sia un grande ostacolo nello yoga era già stato menzionato in una precedente occasione. Dḥukha daurmanasya sono i due concetti menzionati – dolore o dolore e abbattimento dello spirito – per non aver acquisito padronanza o non aver ottenuto nulla. Questo non dovrebbe accadere, perché nemmeno un Adepto può sapere quale maestria ha ottenuto, a che punto si trova e quali sono gli ostacoli che gli impediscono di ottenere risultati. Nulla sarà conosciuto, persino da un esperto. Anche una tale persona sarà tenuta all’oscuro; tale è il misterioso regno  che stiamo percorrendo e attraversando. Ma la grande parola d’ordine di questa pratica è: non essere mai diffidente. Non dovremmo mai incolparci o essere scoraggiati nella nostra pratica. 

Può darsi che per interi mesi  non riusciamo a raggiungere la concentrazione, evento possibile a causa del funzionamento di certi karma. Anche in tal caso, si dovrebbe perseverare instancabilmente. C’è una storia in cui viene raccontato che Robert Bruce vide un ragno cadere molte volte, arrampicarsi cadere  e risalire. In una guerra Robert Bruce fu sconfitto. Era seduto in una grotta da qualche parte, piangendo. Non sapeva cosa fare. Poi vide un ragno che si arrampicava sul muro e cadeva, nuovamente saliva e ancora una volta cadeva. Cento volte cadde, ma alla fine si alzò e raggiunse il punto verso il quale voleva arrivare. Poi disse: “Questo è quello che devo fare adesso. Non dovrei continuare a star qui a piangere.” Così,  con il reggimento e le forze disponibili che aveva, lanciò di nuovo un attacco frontale, ottenendo la vittoria nella guerra. 

La morale della storia è che non dovremmo essere malinconici, scoraggiati o persi nei nostri sforzi coscienti, perché la cosiddetta sensazione disfattista che abbiamo nella nostra pratica è dovuta all’azione di ostruzione di alcuni karma.  Altrimenti, quale può essere la spiegazione per la nostra sconfitta, malgrado il nostro sforzo al meglio delle nostre capacità? Abbiamo lottato per giorni e notti, per mesi e anni, e non stiamo ottenendo nulla. Com’è possibile? Il motivo è che c’è un ostacolo molto forte, come un muro spesso davanti a noi, causato da un karma tamasico o rajasico delle vite precedenti. Tutto il nostro tempo è trascorso per abbattere questo muro. Il risultato è qualcosa di molto diverso, che verrà in seguito. 

Allora, perché dovremmo piangere di non aver ottenuto nulla? Abbiamo raggiunto; abbiamo creato una varco nel muro. È come il forte di Bharatpur che gli inglesi volevano abbattere, ma non potevano a causa dello spessore del muro. In un modo o nell’altro, dopo uno sforzo tremendo, fecero un buco ed entrarono. Possiamo immaginare quale sforzo infaticabile e quale tipo di perseveranza fosse richiesto per creare una breccia nel forte. Altrimenti, ci si arrenderebbe tornando indietro. Era impossibile irrompere perché il muro era troppo spesso: cinquanta piedi di spessore, fatto di fango. Non si poteva rompere con nessun tipo di proiettile, tale era il forte Bharatpur. Non ci sono riusciti, ma erano perseveranti. 

In un modo o nell’altro hanno creato un varco, sono entrati, e il forte è stato catturato. Allo stesso modo, lo sforzo del primo giorno non deve necessariamente condurre all’Illuminazione, ciò a causa dei grandi sforzi necessari per sfondare il forte del velo dell’ignoranza e del karma, di per sé sufficiente e pesante. Anche se spendiamo tre quarti della nostra vita solo in questo lavoro, non dovrebbe essere considerata una sconfitta. Spesso accade che la maggior parte della nostra vita sia spesa solo nella purificazione e nell’eliminazione di questo velo. Una volta compiuto questo lavoro di purificazione e rottura in negativo, il risultato positivo avverrà in un batter d’occhio. Di quanto tempo abbiamo bisogno per vedere la luminosità del sole? Dobbiamo solo rimuovere il velo della cataratta che copre i nostri occhi e immediatamente vediamo il sole splendere. Quindi, questo vaśyatā, o dominio sui sensi di cui parla il sūtra, si ottiene con uno sforzo molto duro, e nessun sādhaka può permettersi di perdere il cuore nel tentativo. È dichiarato nelle scritture sullo yoga che l’unica cosa che funziona, e accade, in questa nobile impresa è la perseveranza. Se continuiamo a fare continuamente una cosa, ancora e ancora, se ci riusciamo o no, alla fine ci riusciremo.

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