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Śrī Svāmī Kṛṣnānanda
L’applicazione del Pratyāhāra

Traduzione autorizzata dalla Divine Life Society, tratta da:  Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, The Study and practice of Yoga, an exposition of the Yogasūtras of Patañjali, Volume II, Chapter 81: The Application of Pratyāhāra, tutti I diritti riservati, The Divine Life Society, Śivanandanagar (Rishikesh), India, 2007; pgg. 316-326. www.dlshq.org

foto di krishnananda

Śrī Svāmī Kṛṣnānanda, fonte: https://www.swami-krishnananda.org/gallery_01.html

L’astrazione della mente dagli oggetti, per il conseguimento dello stato dell’Essere Spirituale, è ciò che è noto come Pratyāhāra. Questo non è solo uno degli aspetti più fraintesi della pratica dello Yoga, ma anche il più difficile. Forse è stato frainteso a causa della sua complessità, divenendo in tal modo un processo doloroso. Conseguentemente, quando si raggiunge questo stadio, ci si trova in una posizione molto imbarazzante.
In primo luogo, c’è una comprensione inadeguata di ciò che sta accadendo e di ciò che è richiesto. In secondo luogo, il primo tentativo sembra essere molto doloroso e, quindi, c’è un calo dell’ardore della mente con cui si era iniziata la sua pratica. Nelle menti dei ricercatori, anche quelli ben informati, c’è una grande mole di dubbi sull’operatività da porre in essere in questo (quarto) livello (della via dello Yoga) noto come Pratyāhāra. 

Si tratta di ritiro (dei sensi)? A causa di un mix di dottrine filosofiche e difficoltà pratiche sorgono svariate domande. Alcuni tra esse: da cosa è ritirata la mente?  L’esistenza stessa dell’oggetto proviene dalla sua forma o dalla sua realtà? L’onnipresenza dello spirito dovrebbe precludere qualsiasi tipo di ritiro (dei sensi). Inoltre, vi è la dottrina della devozione [Bhakti] che riconosce la presenza di Dio in ogni cosa; la caratteristica onnipervadente di Dio non richiederebbe un ritiro della mente da nulla, poiché Dio è presente ovunque.
Poi c’è il dubbio che l’astrazione della mente possa significare una sorta d’introversione psicologica, che è ciò che è contestato dagli psicoanalisti, perché l’atteggiamento introverso è l’opposto di quello estroverso, ed è ugualmente negativo, tanto quanto l’atteggiamento estroverso. Sia se siamo legati interiormente o esternamente, non fa differenza, comunque siamo vincolati.
E in cima alla lista c’è l’aspetto doloroso, perché è impossibile per la mente non pensare a ciò che desidera. 

Se non pensa a ciò che desidera, allora a cosa pensa? A cos’altro pensiamo, a ciò che non ci piace? Ci aspettiamo che la mente cancelli il pensiero delle cose dalla sua memoria, compresi anche quei pensieri che vuole e considera validi e utili.
Cos’altro si deve pensare, se tutto viene rimosso dalla sua memoria? Le difficoltà sono tutte queste. Tutte le domande di questo tipo sorgono a causa di una base impropria in un contesto filosofico, che costituisce la fase preparatoria della pratica dello Yoga.
Lo Yoga è una implementazione operativa e pratica di una scienza dell’universo. Alla base di questa tecnica specifica c’è una Visione delle cose. Questo è ciò che, probabilmente, s’intende con l’insegnamento, costantemente ribadito, della Bhagavadgītā, [secondo il quale] lo Yoga dovrebbe essere preceduto da Sāṃkhya. Qui le parole “Yoga” e “Sāṃkhya” non hanno il significato classico (tecnico). Significano, semplicemente, la teoria e la pratica.

Eṣā te’bhihitā sāṅkhye buddhir yoge tvimāṁ śṛṇu (B.G. II.39) : ” Fino a questo momento ti ho parlato di Sāṃkhya. Adesso ti parlerò dello Yoga “, dice Bhagavan Śri Kṛṣṇa. Dovrebbe esserci una corretta comprensione di ciò che deve essere fatto. Questo è ciò che potremmo chiamare il Sāṃkhya, o aspetto filosofico. Quando iniziamo a farlo effettivamente, allora è l’aspetto dello Yoga. In ogni branca dell’apprendimento ci sono l’aspetto teorico e quello pratico, sia in matematica, sia in fisica, o qualsiasi altro aspetto dello studio. Qui è di natura simile. Perché la mente deve essere ritirata dall’oggetto? La risposta a questa domanda è nell’aspetto teorico, la filosofia. Cosa c’è di sbagliato nella mente nella sua contemplazione delle cose? Perché non dovremmo pensare a un oggetto? Per ora, nella fase in cui abbiamo effettivamente adottato questa pratica, non è possibile rispondere. 

Avremmo dovuto comprenderlo molto prima. Quando abbiamo iniziato a camminare, significa che sappiamo già perché stiamo camminando e dov’è la nostra destinazione. Non possiamo iniziare a camminare e dire “Dove sto andando?” Perché abbiamo iniziato a camminare senza conoscere la destinazione? Allo stesso modo, se alla nostra domanda sul motivo per cui ciò è necessario, non abbiamo risposto correttamente all’interno di noi stessi, allora ci sarà immediatamente il rifiuto da parte dalla mente che dirà: “Tu non sai cosa stai facendo. Mi stai semplicemente preoccupando.” In tal caso la mente non accetterà questa proposta di astrazione. 

Quindi, prima di iniziare a operare nella pratica, dovrebbe esserci una chiara consapevolezza; questo è un principio da seguire in ogni ambito della vita. Senza sapere cosa si deve fare, perché iniziamo a fare qualcosa? Anche per cucinare, dobbiamo prima conoscere la teoria. Di cosa si tratta? Non possiamo correre a capofitto senza capire. 

Lo scopo del ritiro della mente o dei sensi dagli oggetti è semplice; la semplice risposta a questa domanda è che la natura delle cose non consente la conoscenza che ha la mente quando contatta un oggetto. L’idea che abbiamo nella nostra mente quando conosce un oggetto non è in consonanza con la natura della Verità. Questo è il motivo per cui la mente deve essere ritirata dall’oggetto. 

Esiste una definizione particolare che la mente impone all’oggetto del senso nel momento della sua conoscenza, allo scopo di entrarci in contatto, ecc. Questa definizione è contraria alla natura reale di quell’oggetto. Se chiamiamo un asino un cane, non sarebbe una definizione appropriata; sarebbe un fraintendimento della sua vera essenza. L’oggetto del senso non è collegato al soggetto della percezione nel modo in cui il soggetto lo sta definendo o concependo. Quindi, sin dall’inizio, l’attività della mente nei confronti di questa conoscenza o contatto è mal indirizzata. 

Lo Yoga ci chiede di tenerne subito conto; ma ciò non può essere fatto, a meno che la mente non venga prima ritirata dall’oggetto. Se qualcuno sta soffrendo per una malattia molto grave, che è arrivata a un punto critico, ad uno stadio avanzato, prima di tutto mettiamo il paziente in una specie di semi-digiuno, lo isoliamo completamente da qualsiasi contatto di ogni tipo – sociale, personale, anche psicologico – così che ci sia un a giusta atmosfera per l’investigazione e la diagnosi. Il Pratyāhāra è questo: completa messa in quarantena del paziente, non consentendo nessun tipo di intrusione dall’esterno. Fisicamente, in ogni senso del termine, dovrebbe esserci l’isolamento, in modo a poter avere una chiara visione della situazione, ma anche uno studio delle varie tecniche che devono essere adottate per rettificare la nozione sbagliata che è nella mente. 

Il Pratyāhāra non è lo propriamente lo Yoga. Così come l’isolamento del paziente in un reparto non è il trattamento principale ma è un aspetto necessario del trattamento, allo stesso modo il Pratyāhāra è una componente essenziale dello Yoga, anche se ancora non è lo Yoga. Lo Yoga deve ancora iniziare. Per alcuni giorni il dottore non può fare nulla e continuerà semplicemente a osservare ciò che sta accadendo. Dopo giorni e giorni di osservazione, il medico può arrivare a una conclusione su quale sia la condizione del paziente, quindi il trattamento verrà avviato. Allo stesso modo, la mente è prima di tutto segregata dai suoi coinvolgimenti.
Questa segregazione è Pratyāhāra.  La mente ha un’idea pregiudiziale nella relazione che intrattiene rispetto alle sue cose, ai suoi oggetti. 

Questo pregiudizio è sorto a causa di un’idea preconcetta pre-esistente; quest’idea ha un unico scopo rispetto a se stessa: vale a dire lo sfruttamento di quell’oggetto per i suoi scopi. Ha un unico intento, un obiettivo profondamente concentrato.
Se una bestia selvaggia guarda una preda, ha una sola, elementare intenzione. Allo stesso modo, la cognizione mentale di un oggetto, specialmente quando è caricata con una forte emozione, è sostenuta da un singolo intento. Questo è il pregiudizio che, essendo profondamente irrazionale, non consentirà nessun tipo di analisi razionale. Un sentimento, o un pregiudizio, non possono essere analizzati razionalmente. Non sarà soggetto ad analisi, e non sarà nemmeno d’accordo con lui – questa è la forza che c’è dietro.
Quindi c’è la necessità di isolare completamente la mente nel suo aspetto individuale, così come il correlato aspetto sociale esterno.
La mente non può pensare a un oggetto quando non gli piace. Questo è un tipo di Pratyāhāra. 

Supponiamo di essere avversi a una cosa; non penseremo a quella cosa Ma questo non è il Pratyāhāra yogico, perché l’avversione spontanea che sorge nella mente a causa di quell’oggetto particolare, che è un ostacolo per le sue soddisfazioni, non è una condizione salutare. Il processo Pratyāhāra è un processo sano e positivo. Non è determinato dalla costrizione o dagli impedimenti che si presentano sotto forma di cose differenti da quelle che la mente desidera. A volte, quando non li riguarda, la mente non pensa agli oggetti. Questo è un altro tipo di Pratyāhāra, diverso dal Pratyāhāra yogico che è un ritiro filosofico, non un colpo negativo che la mente riceve, o un oblio completo o ignoranza della presenza di una cosa. È un atteggiamento consapevole, rispetto al quale non si deve consentire nessuna interferenza da parte dell’inconscio. Nel processo di Pratyāhāra siamo consapevoli di tutto ciò che sta accadendo. Non ignoriamo alcun aspetto e non siamo inconsapevoli di nulla.
Comprese le cose che ci piacciono e quelle che non ci piacciono: entrambe sono oggetto di analisi. 

Il ritiro non è semplicemente dal lato negativo dell’esperienza, cioè gli oggetti che non piacciono, ma anche dagli oggetti positivi che piacciono veramente. Le simpatie e le antipatie della mente sono due aspetti del coinvolgimento: ciò che il Pratyāhāra si sforza di realizzare è precisamente il distacco della mente dal coinvolgimento. Il coinvolgimento è una specie di malattia che ha preso possesso della mente, dalla quale la mente deve essere curata e liberata. Se verso una cosa abbiamo attrazione o avversione, in entrambi i casi siamo ugualmente coinvolti.  Dal punto di vista dello Yoga sono entrambi dei difetti, impedimenti molto gravi.
Fino a quando la mente è attratta dall’oggetto e si aggrappa ad esso, non può esserci comprensione della causa del coinvolgimento, di quale sia il difetto che c’è dietro.  Indirizzare la mente nel modo giusto e necessario, è azione che può compiersi solo in uno stadio superiore, chiamato Dhāraṇā, o concentrazione. Prima ciò, è necessario riportare indietro la mente dalla direzione sbagliata che ha preso. Prima di dirigerla in modo corretto, dobbiamo riportarla indietro dalla direzione sbagliata che aveva. Il significato di Pratyāhāra è questo: la mente ha agito prendendo una direzione sbagliata; quindi, dobbiamo riportarla indietro da tale direzione. 

Ha preso una strada sbagliata, dopo averla riportata al punto in cui è iniziata la strada sbagliata, la dirigiamo su un percorso corretto.
Il portare la mente indietro dal suo corso improprio è Pratyāhāra, mentre indirizzare la mente in una giusta direzione è Dhāraṇā, concentrazione. Ora possiamo apprezzare la necessità del Pratyāhāra. Quando stai facendo qualcosa di sbagliato, e mi aspetto che tu faccia la cosa giusta, in primo luogo t’illuminerei sull’errore commesso, per poi informarti sul modo di rettificare la situazione: smetti di fare ciò che è improprio, per iniziare a fare ciò che è corretto. La cessazione di fare ciò che è inappropriato è Pratyāhāra, il giusto modo di fare ciò che è corretto è Dhāraṇā. Ma, come ho detto, questo è un processo doloroso.
Sebbene possiamo discutere filosoficamente con la mente che ha preso una direzione sbagliata, essa non ascolterà questo argomento perché è coinvolta emotivamente in quel particolare oggetto verso il quale si sta muovendo in modo erroneo.
Anche se è sbagliato in senso assoluto, se ne deve tenere conto, con simpatia nei confronti della mente, divenuta uno con l’oggetto a causa del riconoscimento di un particolare valore contorto in quell’oggetto, dovuto scopo realizzativo per il quale si sta muovendo verso di esso. C’è bisogno di Viveka, la corretta comprensione di tutti gli elementi dai quali la mente è stata coinvolta in tal modo. 

Solo allora è possibile separare la mente dall’oggetto e portarla al punto di corretta concentrazione, che è vero Yoga.
Il dolore implicato nel Pratyāhāra è il risultato dell’attrazione che la mente ha per quell’oggetto verso il quale si muove erroneamente.
Nella misura in cui la direzione che la mente ha preso verso l’oggetto è sbagliata, è sbagliata anche l’attrazione che ha verso l’oggetto; analogamente, anche il piacere che deriva dall’oggetto è un’idea mal formulata e mal concepita. C’è un effetto di capovolgimento, verificatosi a causa di un errore fondamentale nell’atteggiamento complessivo della mente rispetto all’oggetto. In un sūtra precedente abbiamo studiato che, per colui che discrimina, in questo mondo tutto è dolore: duḥkham eva sarvaṁ vivekinaḥ (II.15)

L’aspetto doloroso di una cosa è reso chiaro allo spirito consapevole e alla mente. Ma, per una mente poco chiara, questo aspetto doloroso non risulterà ovvio. Chi può mai credere che gli oggetti dei sensi sono fatti, o costituiti, in un modo completamente diverso dal modo in cui sono visti dagli occhi? La convinzione nella struttura concreta di un oggetto e la stabilità della sua posizione è così intensa che, in quel momento, qualsiasi tipo di opposta analisi filosofica non sarà apprezzata dalla mente. Quindi, mentre c’è bisogno di una forza mentale razionale nel riportare la mente indietro dall’oggetto, c’è anche la necessità di considerare l’aspetto emotivo, che non dovrebbe essere completamente dimenticato, perché la mente è composta da vari aspetti. Pensare non è l’unico aspetto della mente. In essa ci sono anche l’aspetto del sentimento, l’aspetto della volontà. Lavorano tutti insieme, in connivenza. 

Quando la mente pensa a un oggetto in modo erroneo, anche la volontà funziona in modo errato rispetto ad esso, confermando quel pensiero; quindi, il sentimento lo carica con la forza richiesta. È come i banditi che si uniscono; anche se si muovono nella direzione sbagliata, hanno una forza propria; quindi, è difficile fronteggiarli tutti insieme senza un’adeguata precauzione. La forza che sta dietro l’attività sbagliata della mente è l’emozione e, a meno che questa forza non venga ritirata, non possiamo controllare quell’attività. Quindi, nel praticare il Pratyāhāra, l’astrazione della mente dagli oggetti, dobbiamo considerare l’aspetto razionale, l’aspetto volitivo e l’aspetto emotivo. Cosa stiamo pensando rispetto all’oggetto verso cui ci stiamo muovendo? Qual è la quantità di volontà che abbiamo esercitato nel soddisfare il nostro desiderio? Qual è la sensazione profonda che abbiamo al riguardo? Se possibile, tutti e tre devono essere isolati. Il pensiero, la volontà e il sentimento, sebbene lavorino tutti insieme quasi simultaneamente, sono tre aspetti diversi, e possono essere tirati fuori indipendentemente, come fili da un tessuto. 

La cosa più difficile da affrontare è l’emozione, meno difficile è la volontà, ancor meno l’aspetto del pensiero. Pertanto, all’inizio, sarebbe vantaggioso per il ricercatore analizzare l’aspetto più semplice, ovvero l’aspetto pensante. Cosa stiamo pensando di quell’oggetto? Perché ci siamo avvicinati? Qual è la nostra intenzione su di esso? Quindi possiamo passare all’altro aspetto, la volontà. Abbiamo una determinazione allo scopo di confermare l’atteggiamento che abbiamo adottato, causata da un pensiero rispetto a quell’oggetto. Ma l’aspetto più profondo è l’emozione, la sensazione. Nessun Pratyāhāra può essere efficace se tutti questi tre aspetti non sono adeguatamente analizzati e isolati dalla natura dell’oggetto. Sebbene la mente possa non pensare all’oggetto, può esserci un sentimento nei suoi confronti; in tal caso non c’è Pratyāhāra. Non solo: l’aspetto del pensiero, del volere, del sentimento hanno in sé anche un elemento subconscio: anch’esso deve essere esplorato, prima di poter acquisire la completa padronanza.
Al momento dell’effettuazione di questa pratica potrebbe manifestarsi una sottile inquietudine. Questa irrequietezza può essere dovuta alla presenza del subconscio, come per quello stesso oggetto da cui la mente è stata coscientemente ritirata; questo aspetto è indicato in un verso della Bhagavadgītā: rasavarjam raso’py asya paraṁ dṛṣṭvā nivartate (B.G. II.59) 

Nel Pratyāhāra è vero che la mente e i sensi sembrano essersi ritirati dagli oggetti di senso. Ma come facciamo a sapere che la mente e i sensi non hanno gusto per l’oggetto? Quindi, il Pratyāhāra non è semplicemente un isolamento fisico o addirittura una disconnessione cosciente di se stessi dall’oggetto, ma è un necessario distacco emotivo – solo mediante il quale è possibile cessare di provare ogni propensione/gusto per una cosa. Il gusto può andare al sentimento; e finché il gusto è presente, ci sono tutte le possibilità che gli altri aspetti emergano nuovamente e si ripresentino attivi. Finché la radice è lì, ci sono tutte le possibilità che, un giorno o l’altro, germogli nuovamente. Il Pratyāhāra completo non è praticabile, a meno che ad esso non siano associati elementi di concentrazione e meditazione. Il lato positivo dovrebbe essere portato, almeno in una certa misura, anche nella pratica.
Proprio come nel trattamento medico, insieme alla specifica prescrizione per il trattamento della malattia, diamo anche un tonico ricostituente, in modo tale che non ci siano effetti deleteri dovuti alla debolezza del sistema causati da un trattamento intensivo; allo stesso modo dobbiamo essere molto cauti nel trattare con la mente – e nel ritirare la mente dagli oggetti, non siamo semplicemente focalizzati sull’aspetto del ritiro. Non stiamo solo svuotando la mente, senza dare nulla con cui riempirla. 

Insieme allo svuotamento della mente può esserci un parallelo riempimento con un contenuto positivo. In tal modo l’aspetto doloroso sarà in larga misura mitigato. Non stiamo semplicemente affamando la mente senza darle nutrimento. Sarebbe una cosa molto difficile da sopportare. La mente, insieme allo svuotamento e alla sua graduale liberazione mediante il distacco dai suoi soliti oggetti di contatto, può essere riempita positivamente con il contenuto di Dhāraṇā, i cui venti inizieranno a soffiare, gradualmente, con il proprio messaggio di fragranza e sollievo, insieme a questo più profondo stadio di Pratyāhāra o ritiro.
Così si conclude il Sādhana Pāda [
साधानपाद] degli Yogasūtra. Dal Vibhūti Pāda [विभूतिपाद] in avanti, ci viene fornito il passaporto per entrare nel dominio dello yoga interiore, costituito da concentrazione, meditazione e comunione con il nobile, grande oggetto della meditazione. Il Vibhūti Pāda inizia con Dhāraṇā, o concentrazione della mente.

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