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La scienza della Chāndogya Upaniṣad (छान्दोग्य उपनिषद्)

Traduzione dal testo di  Karthikeyan Sreedharan
UPANIṢADS – THE TREATISES ON THE SCIENCE OF SPIRITUALITY
The Science of Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad
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In questa [seconda] parte della serie “La Scienza delle Upaniṣad”, affrontiamo lo studio della Chāndogya Upaniṣad. In precedenza abbiamo studiato la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad[1]; come introduzione a quello studio abbiamo fatto le seguenti osservazioni che definiscono il perimetro del nostro approccio analitico nello svelare lo spirito scientifico dei pensieri upaniṣadici.

“Le Upaniṣad non sono come i normali testi spirituali che si soffermano sulla glorificazione e l’appagamento di un dio onnipotente attraverso preghiere, rituali e offerte, con l’intenzione di assicurarsi protezione, prosperità, felicità e lunga vita. La preoccupazione principale delle Upaniṣad non è la vita fisica in quanto tale, ma il principio ultimo che sostiene la vita fisica.
Le Upaniṣad riconoscono l’esistenza di un’entità al di là del mondo fenomenico. Avanzano il concetto di realtà da un piano relativo allo stato assoluto, alla realtà che è libera da ogni limitazione di tempo e di spazio. Questo progresso è il più grande risultato raggiunto dalla mente meditativa indiana ed è la più grande altezza mai raggiunta dalla mente umana nel pensiero speculativo.
Fu con questo progresso che, in India, il mero pensiero spirituale si trasformò in pure deduzioni filosofiche.

È quindi imperativo che qualsiasi tentativo di comprendere gli insegnamenti delle Upaniṣad debba tenere in debita considerazione questa loro peculiare caratteristica. Qualsiasi tentativo alternativo che utilizzi gli strumenti consueti di interpretazione è negativo, in quanto oscurerebbe lo spirito scientifico delle Upaniṣad, degradando in tal modo i loro sublimi insegnamenti a semplici composizioni teologiche. Inoltre, essendo estratti da altre tre parti dei Veda, la maggior parte delle principali Upaniṣad contiene alcune parti che non si adattano bene al tema principale in discussione in quella particolare Upaniṣad.
Pertanto, mentre si interpretano le Upaniṣad per trarne insegnamenti, queste parti devono essere tralasciate. Nel presente sforzo teniamo a mente queste osservazioni come guida per spiegare i contenuti di ciascuna Upaniṣad.
Ciò significa che ci concentriamo su quegli insegnamenti che una mente razionale dovrebbe prendere in considerazione e assimilare nella propria costituzione cognitiva; in questo processo ignoriamo semplicemente quei contenuti che sono di natura piuttosto ritualistica o puramente mitologica”.

Nel prendere in considerazione la Chāndogya Upaniṣad e successivamente le restanti Upaniṣad principali, ci atteniamo a questa osservazione. Questa Upaniṣad comprende gli ultimi 8 capitoli della Chāndogya Brāhmaṇa.
Ogni capitolo è diviso in sezioni e ogni sezione contiene un certo numero di versetti. Quindi, un versetto è identificato rispettivamente dal capitolo, dalla sezione e dal numero del versetto, ad esempio: 6.2.1. Per dimensioni questa Upaniṣad si avvicina alla Bṛhadāraṇyaka.
La figura principale di questa Upaniṣad  è il saggio Uddālaka Āruṇi, che abbiamo già incontrato nella Bṛhadāraṇyaka fare domande sul principio che tiene insieme e governa dall’interno di tutti gli esseri.
Qui lo vediamo mentre insegna a suo figlio Śvetaketu il principio ultimo. Il suo insegnamento è la parte più importante di questa Upaniṣad e costituisce il contenuto del capitolo 6. In questo capitolo si trova anche la famosa dichiarazione di “Tattvamasi[2], come pronunciata da Uddālaka Āruṇi.

Primo Capitolo

Questo capitolo contiene 13 sezioni, di cui la prima si apre con un invito a meditare sulla sillaba ‘Oṃ‘. Qual’è il motivo di tale esortazione ? La sillaba ‘Oṃ‘ rappresenta il Principio Ultimo dell’ Ātman che in sostanza è SAT-CIT-ĀNANDA.

L’Ātman è libero da tutte le dualità come piacere-dolore, affetto-avversione, caldo-freddo, alti e bassi, ecc. che definiscono la diversità della manifestazione fisica. Sono queste dualità che causano le miserie nella vita mondana; quando siamo affetti da dualità siamo soggetti alle miserie. Tenuto conto di ciò, per godere di una prolungata felicità nella vita, dobbiamo mantenerci isolati e distaccati rispetto a queste dualità.
A questo scopo, poiché l’Ātman è libero da tutte le dualità, è consigliabile stargli vicino il più possibile. Ecco perché ci viene chiesto di meditare su ‘Oṃ‘ che in verità è il simbolo primordiale dell’Ātman. Vedremo ulteriori dettagli di Oṃ nel successivo capitolo 2. Il versetto 1.1.10 dichiara che sono più efficaci esclusivamente  quelle azioni compiute con conoscenza, fede e meditazione.
Questo perché tali azioni esprimono il meglio grazie alla piena concentrazione di tutte le nostre facoltà. La sezione 2 tratta della rivalità tra Deva[3][divinità] e Asura[4] [demoni], che possiamo intendere come il conflitto senza fine tra due forze opposte in ogni essere, che danno origine a varie azioni di natura diversa. Una descrizione analoga è contenuta anche nella Bṛhadāraṇyaka 1.3.

Le sezioni da 3 a 13 del primo capitolo descrivono i diversi oggetti di meditazione di ‘Oṃ’ e argomenti correlati, che sono di scarso interesse per noi, poiché il nostro obiettivo è svelare lo spirito scientifico nell’Upaniṣad. Quindi ora passiamo al capitolo 2.

Secondo Capitolo

In questo capitolo andiamo direttamente alla sezione 23, poiché i precedenti non hanno molta rilevanza filosofica. Il versetto 2.23.1[5] stabilisce la raccolta di leggi a cui ci si dovrebbe attenere per condurre una vita virtuosa; sono (i) Sacrificio, Studio e Carità; (ii) Austerità (tapas); e (iii) Castità e vita nella dimora del precettore (Brahmacarya e ācāryakulavāsī).
Tutte queste azioni conducono al mondo dei virtuosi; ma solo chi è consolidato nel Brahman raggiunge l’immortalità.

Nei versi 2.23.2 e 2.23.3 troviamo una descrizione di come la sillaba ‘Oṃ‘ si sia evoluta dalla meditazione profonda di Prajāpati. I mondi in profonda meditazione  emanarono i Veda (2.23.2)[6], da cui, a sua volta, è scaturito il  ‘Bhūr – Bhuvaḥ – Svaḥ’.
Sono questi tre suoni che alla fine hanno emesso la sillaba “Oṃ” attraverso lo stesso processo.
Quindi ‘Oṃ‘ è l’astrazione di tutti i Veda e di tutti i mondi.  ‘Oṃ‘ è tutto questo –  oṃkāra evedaṃ sarvam (2.23.3)[7].

Terzo Capitolo

Questo capitolo inizia con un’inchiesta nell’essenza di vari oggetti in questo mondo fenomenale e finalmente arriva alla conclusione che tutto questo è Brahman (सर्वं खल्विदद ब्रह्म – Sarvaṃ Khalvidaṃ Brahma  – 3.14.1); tutto nasce da esso, esiste in esso e infine vi si fonde. Bisogna meditarlo con calma, senza essere disturbati da dualità come affetto-avversione e piacere-dolore. Poiché l’essenza dell’uomo risiede nella sua volontà, con essa può divenire ciò che desidera. Quindi deve meditare con ferma determinazione. Nei seguenti tre versi, vale a dire. 3.14.2, 3.14.3 e 3.14.4 vediamo cosa sia questo Brahman.
È Ātman, ovvero conoscenza assoluta, il cui corpo è costituito dal ‘soffio vitale’ (प्राण – Prāṇa),  il cui aspetto è luminoso ed etere (आकाश- ākāśa) la sua forma; in lui sono tutte le azioni, tutti i desideri, tutti gli odori, tutti i gusti e tutto ciò che qui pervade; è calmo ed anche distaccato (3.14.2[8]). (La frase ‘tutte le azioni, tutti i desideri…’ significa che egli è la fonte di tutti questi. Poiché ogni cosa fenomenica esiste in opposti, un’entità che è dichiarata essere la fonte di tutti questi non dovrebbe contenere nessuno di questi; essi dovrebbero annullarsi  a vicenda.
Ātman è quindi privo di tutte queste cose fenomeniche). Questo è l’identico Ātman che è nel nostro cuore interiore costituito dalla coscienza; più piccolo di un seme di granturco, di orzo o di un granello di senape e nello stesso tempo più grande della terra, del cielo e di tutti questi mondi (3.14.3[9]). Si raggiunge l’Ātman lasciando questa esistenza fenomenica (3.14.4[10]).
L’implicazione è che l’Ātman è il più sottile del sottile e il più grossolano del grossolano; pervade tutti gli esseri e le cose.
Ātman è UNO senza un secondo; è una continuità incessante, senza interruzione, che pervade l’intero universo. La descrizione del corpo, dell’aspetto, ecc. indica che non è afferrabile dagli organi di senso.

Quarto Capitolo

In questo capitolo troviamo alcune storie su come alcune persone hanno cercato di conoscere il Brahman. La più interessante è quella di Satyakāma Jābāla (da 4.4.1 a 4.9.3). Il ragazzo Satyakāma voleva essere iniziato agli studi religiosi; per avvicinarsi a un insegnante a tale scopo, ha bisogno di conoscere il nome della sua famiglia. Lo chiese a sua madre, ricevendone una strana risposta.
Disse: “Non so, figlio mio, a quale famiglia appartieni. Nella mia giovinezza mi muovevo molto, come serva, poi ti ho concepito. Quindi, non so di che famiglia sei. Ma io sono Jābāla e tu sei Satyakāma; quindi assumi come nome  Satyakāma Jābāla”.
Quindi si recò dal maestro di nome Gautama, figlio di Hāridrumata e gli chiese di essere istruito.
Per quanto riguarda il nome della sua famigli, riportò quello  che gli aveva detto sua madre. Gautama rimase colpito dalla sua onestà e lo accettò come apprendista. Quindi Gautama scelse quattrocento vacche magre e deboli e chiese a Satyakāma di pascolarle. Mentre andava con le mucche, Satyakāma giurò che sarebbe tornato solo quando il numero delle mucche fosse salito a mille. Quando le mucche furono in numero di migliaia, il toro della mandria chiese a Satyakāma di portarle a casa del Maestro.
Il toro lo istruì anche su una quarta parte  del Brahman: “Brahman  è radioso (prakāśavān – प्रकाशवान्).
Il radioso Brahman consiste nelle quattro direzioni”. Satyakāma apprese quindi degli altri tre quarti del Brahman dal fuoco, dal  fenicottero e da un uccello acquatico).
Questi gli  insegnarono, rispettivamente,  il Brahman come infinito (anantavān – अनन्तवान्), effulgente (jyotiṣmān – ज्योतिष्मान्) e come dimora (āyatanavān – आआतनवान्).

Avendo in tal modo appreso del Brahman, Satyakāma tornò dal suo Maestro, che lo trovò splendente come un  conoscitore del Brahman. Satyakāma gli disse che gli era stato impartito l’insegnamento da esseri diversi dagli umani; ma voleva comunque essere istruito dal Maestro,  poiché aveva sentito dire che la conoscenza appresa dal Maestro è la migliore. Il Maestro glielo aveva insegnato, ma era egli stesso che lo aveva appreso. Con questa storia passiamo ora al capitolo successivo.

Quinto Capitolo

La prima sezione di questo capitolo parla di una disputa tra gli organi della parola, occhi, orecchie, mente e respiro, su chi di loro sia il migliore. Si sono rivolti al padre, Prajāpati, per risolvere la controversia. Disse loro: “Lui è il migliore alla cui partenza, il corpo diventa il peggiore“.
Poi, ciascuno di loro a sua volta lasciò il corpo e rimase via per un anno; quando finalmente il respiro [l’energia vitale, il prāna] stava per allontanarsi, gli altri organi cominciarono a staccarsi dalle rispettive sedi. Pertanto, fu  stabilito che il respiro (prāna) è il migliore di tutti (da 5.1.1 a 5.1.15)[11]. Il resto del capitolo è pieno di contenuti sulla natura delle descrizioni mitologiche che non hanno contenuti specifici di natura filosofica;  quindi, li saltiamo per passare al capitolo successivo.

Sesto Capitolo

Questo è il capitolo più importante della Chāndogya Upaniṣad, perché contiene le istruzioni più esplicite su Ātman e Brahman. Essi vengono rivelati in una conversazione tra Śvetaketu e suo padre Uddālaka Āruṇi. Quando Śvetaketu si avvicinò all’età dell’iniziazione all’apprendimento vedico (cioè 12 anni), suo padre gli chiese di vivere la vita di uno studente religioso. Voleva che il figlio diventasse un vero Brāhmaṇa; nella loro famiglia non c’era mai stato nessuno che fosse solo un Brahman bandhu. Dopo essere istruito in tal senso da suo padre, Śvetaketu si recò presso un Maestro dove visse per 12 anni studiando i Veda. All’età di 24 anni tornò da suo padre, pensando con arroganza di aver imparato tutto nei Veda. Il padre intuì la sua presunzione e volle demolirla mostrandogli di non averne la vera conoscenza; perché coloro che hanno la vera conoscenza non possono essere arroganti riguardo al loro apprendimento. La conoscenza vedica è solo uno strumento per ottenere quella conoscenza. Allora domandò: «Caro figlio, hai chiesto tu quell’istruzione per cui il muto si fa udire, l’invisibile si percepisce e l’ignoto si fa conoscere? (6.1.2 e 6.1.3)”

स ह द्वादशवर्ष उपेत्य चतुर्विंशतिवर्षः सर्वान्वेदानधीत्य महामना अनूचानमानी स्तब्ध एयाय तंह पितोवाच ॥ ६.१.२ ॥
sa ha dvādaśavarṣa upetya caturviṃśativarṣaḥ sarvānvedānadhītya mahāmanā anūcānamānī stabdha eyāya taṃha pitovāca || 6.1.2 ||
श्वेतकेतो यन्नु सोम्येदं महामना अनूचानमानी स्तब्धोऽस्युत तमादेशमप्राक्ष्यः येनाश्रुतं श्रुतं भवत्यमतं मतमविज्ञातं विज्ञातमिति कथं नु भगवः स आदेशो भवतीति ॥ ६.१.३ ॥
śvetaketo yannu somyedaṃ mahāmanā anūcānamānī stabdho’syuta tamādeśamaprākṣyaḥ yenāśrutaṃ śrutaṃ bhavatyamataṃ matamavijñātaṃ vijñātamiti kathaṃ nu bhagavaḥ sa ādeśo bhavatīti || 6.1.3 ||

Ciò che il padre chiede è la conoscenza del principio ultimo che non può essere colto dalle ordinarie facoltà conoscitive. L’implicazione della frase “Il non udito diventa udito, ecc.” è che questa particolare conoscenza non può essere acquisita dalle facoltà fisiche di cognizione. Viene anche indicato che la conoscenza dei Veda è infruttuosa se, con essa, non si è in grado di conoscere il principio ultimo. Śvetaketu non era a conoscenza di un tale tipo di conoscenza, sebbene avesse studiato i Veda in modo appropriato. Quindi desiderava sapere che tipo di istruzione fosse.

Il padre lo spiega in questo modo:

यथा सोम्यैकेन मृत्पिण्डेन सर्वं मृन्मयं विज्ञातं स्याद्वाचारम्भणं विकारो नामधेयं मृत्तिकेत्येव सत्यम् ॥ ६.१.४ ॥
yathā somyaikena mṛtpiṇḍena sarvaṃ mṛnmayaṃ vijñātaṃ syādvācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ mṛttiketyeva satyam || 6.1.4 ||
यथा सोम्यैकेन लोहमणिना सर्वं लोहमयं विज्ञातं स्याद्वाचारम्भणं विकारो नामधेयं लोहमित्येव सत्यम् ॥ ६.१.५ ॥
yathā somyaikena lohamaṇinā sarvaṃ lohamayaṃ vijñātaṃ syādvācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ lohamityeva satyam || 6.1.5 ||
यथा सोम्यिकेन नखनिकृन्तनेन सर्वं कार्ष्णायसं विज्ञातं स्याद्वाचारम्भणं विकारो नामधेयं कृष्णायसमित्येव सत्यमेवंसोम्य स आदेशो भवतीति ॥ ६.१.६ ॥
yathā somyikena nakhanikṛntanena sarvaṃ kārṣṇāyasaṃ vijñātaṃ syādvācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ kṛṣṇāyasamityeva satyamevaṃsomya sa ādeśo bhavatīti || 6.1.6 ||

Significato: ‘Quell’istruzione, mia cara, è proprio come: (i) da un singolo pezzo di terra, tutto ciò che è di terra diventa noto come semplici modificazioni espresse in nomi basati su parole, la verità è che (ii) da un singolo lingotto d’oro, tutto ciò che è d’oro diventa noto come semplici modificazioni espresse in nomi basati su parole, la verità è che tutto è solo oro; e (iii) da un solo tagliaunghie, tutto ciò che è fatto di ferro diventa noto come semplici modificazioni espresse in nomi basati su parole, la verità è che tutto è solo ferro».

L’implicazione è che esiste solo un’Entità e tutto ciò che è qui manifestato sono solo modifiche di quell’entità espressa in nomi e forme. Se quell’entità è conosciuta, anche tutto ciò che manifesta è noto.
Tuttavia non significa che colui che realizza quell’entità conoscerebbe tutte le sfumature del mondo fisico; per esempio, non ci si può aspettare che una persona del genere parli tutte le lingue del mondo o faccia una complicata neurochirurgia.
Conoscerebbe solo la verità del mondo in modo da avere una visione per vedere il mondo intero come parte del suo essere e viceversa. Questo arricchirà la sua vita con pace e felicità eterne. Le Upaniṣad dichiarano costantemente che l’Ātman è questa Entità. Abbiamo visto questa dichiarazione nella Bṛhadāraṇyaka e la vedremo ancora e ancora nel corso del nostro studio.
L’Ātman, in sostanza è ‘SAT-CIT- ĀNANDA’ (‘सत् चित् आनन्द’). SAT è ciò è privo di uno stato di non esistenza (Bhagavad Gītā – 2.16), CIT è pura coscienza assoluta e ĀNANDA è beatitudine trascendente.
Perché l’Ātman, che si dice sia la forza dominante dell’universo, è ‘SAT-CIT-ĀNANDA‘? Perché l’intero universo è motivato, in tutte le sue attività, dall’impulso di esistere o di esprimere o di godere. SAT denota esistenza, CIT denota cognizione ed espressione e Ānanda denota godimento. Quindi, Ātman è ‘SAT-CIT- ĀNANDA’; è solo un’astrazione logica dell’impulso che sta dietro a tutte le azioni in questo universo. Ora, nella prossima sezione vediamo come da SAT è emerso l’intero universo.

In 6.2.1 e 6.2.2 si dichiara che all’inizio esisteva solo SAT e nient’altro; da esso, tutta la manifestazione scaturisce la lui.
Non era il nulla che esisteva in principio come credevano alcuni, poiché nulla può nascere dal nulla. All’inizio l’energia (tejas) è emersa da SAT, dall’energia è emersa l’acqua e dall’acqua è emerso il cibo (annam); fu da annam che tutti vennero fuori gli esseri (6.2.3 e 6.2.4). (Il cibo o annam è semplicemente ciò che provvede all’emergere degli esseri; non è necessario che sia qualcosa di mangiato).
A questo punto, si può notare che per la scienza moderna gli atomi sono le particelle fondamentali della materia che costituiscono l’universo. Gli atomi sono solo “gocce” di energia separate in particelle di carica opposta.
Pertanto, è evidente che la separazione dell’energia in opposti è il segreto della manifestazione del mondo fenomenico e questo processo presuppone la presenza di energia.

Poiché da SAT sono emerse progressivamente le tre entità di energia, acqua e cibo con conseguente emersione di esseri, ogni essere le contiene tutte e tre, che contengono anche il principio di SAT che sostiene la loro stessa esistenza (6.3 e 6.4).
L’annam una volta consumato diventa triplice, vale a dire: la parte grossolana diventa feci, la più sottile diventa mente e la parte centrale diventa carne. Allo stesso modo, l’acqua consumata diventa rispettivamente urina, Prāṇa e sangue.
Allo stesso modo l’energia diventa osso, parola (vāk) e midollo. Quindi, la mente consiste nell’annam, Prāṇa nell’acqua e la parola nell’energia (da 6.5.1 a 6.5.4 e 6.6).

Nella sezione 6.7 Uddālaka Āruṇi mostra a suo figlio Śvetaketu che la mente senza annam non funziona correttamente.
A Śvetaketu fu chiesto di digiunare per quindici giorni; lo fece e poi, non fu in grado di ricordare i Veda che aveva studiato; poi mangiò e riuscì a ricordare tutto. Uddālaka conclude affermando che la mente consiste in annam, Prāṇa consiste nell’acqua e la parola consiste nell’energia (अन्नमयं हि, आपोमयः प्राणः, तेजोमयी वाक् – annamayaṃ hi mana, āpomayaḥ prāṇaḥ, tejomayī vāk – 6.7.6).

Uddālaka continua il suo insegnamento in 6.8 spiegando cosa significa dormire. Nel sonno si è pienamente posseduti da SAT che è la sua origine (स्वं अपीतो, तस्मात् एनम् स्वपितीत्याचक्षते – svaṃ apīto bhavati, tasmāt enam svapitītyācakṣate – 6.8.1).
Nel sonno profondo, anche la mente smette di funzionare e riposa nel  Prāṇa (प्राणबन्धनं हि मन – prāṇabandhanaṃ hi mana – 6.8.2). Quando la mente non funziona, è ovvio che anche la parola non funzionerà.
Quindi, nel sonno, a parte SAT, è attivo solo Prāṇa, l’origine.

Da 6.8.3 a 6.8.5, ripete ancora una volta ciò che ha detto in 6.2.3 e 6.2.4, che l’annam è la causa degli esseri, l’acqua è la causa dell’annam e Prāṇa è la causa dell’acqua; tutti questi sono effetti di qualche causa e niente qui accade senza una causa (नेदं अमूलं भवति – nedaṃ amūlaṃ bhavati – 6.8.3 e 6.8.5). Ma SAT è la causa di tutto; tutto emerge da SAT, esiste in SAT e infine si fonde in SAT.

Quando un uomo si allontana da qui, la parola si fonde nella mente, la mente in Prāṇa, il Prāṇa nell’energia e l’energia nell’entità più elevata (अस्य पुरुषस्य प्रयतः वाङ्मनसि संपद्यते, मनः प्राणे, प्राणस्तेजसि तेजः परस्यां देवतायाम् – asya puruṣasya prayataḥ vāṅmanasi saṃpadyate, manah prāṇe, prāṇastejasi tejaḥ parasyāṃ devatāyām – 6.8.6).

Nel verso successivo, viene chiarito che questa entità suprema è l’Ātman che è la stessa sottigliezza e quindi, SAT, che, come abbiamo visto, come fonte di energia, Prāṇa e annam, è implicita come un costituente di Ātman.
La dichiarazione che con la dipartita o, in altre parole, liberando questo corpo, ogni essere si fonde in Ātman, è molto importante. L’identità personale si perde nella fusione con l’Ātman che è un’entità eterna, onnipervadente, senza un secondo.

Questo fatto trova espressione anche in Bṛhadāraṇyaka 2.4.12; lo vedremo di nuovo in 6.9, 6.10. Ora arrivando al 6.8.7, il versetto recita così:

स य एषोऽणिमैतदात्म्यमिदं सर्वं तत्सत्यं स आत्मा तत्त्वमसि श्वेतकेतो इति भूय एव मा भगवान्विज्ञापयत्विति तथा सोम्येति होवाच ॥ ६.८.७ ॥
sa ya eṣo’ṇimaitadātmyamidaṃ sarvaṃ tatsatyaṃ sa ātmā tattvamasi śvetaketo iti bhūya eva mā bhagavānvijñāpayatviti tathā somyeti hovāca || 6.8.7 ||

Significato: ‘Egli (quel Grande Essere menzionato nel verso precedente) è la sottigliezza assoluta (l’essenza sottile) che è inerente a tutto ciò che è qui; quello (tutto ciò che è qui) è Satyam, Lui (il Grande Essere) è Ātman; tu sei quello (Satyam), O, Śvetaketu.

Questa frase è ripetuta nei versetti 6.9.4, 6.10.3, 6.11.3, 6.12.3, 6.13.3, 6.14.3 e 6.15.3. Per inciso, è la frase “तत्त्वमसि” “(tattvamasi)” che appare qui, è designata come uno dei quattro Mahāvākya nelle Upaniṣad.

La parola “Satyam” è solitamente tradotta come verità o semplicemente “vero”. Ma non è esatto; “Satyam” ha un significato filosofico specifico. Ciò che ha SAT è Satyam; questo è spiegato in dettaglio in 8.3.5 di questa Upaniṣad così come in 5.5.1 della Bṛhadāraṇyaka. Inoltre, in 2.6 della Taittirīya Upaniṣad si dichiara che qualunque cosa qui sia solo Satyam.
Dobbiamo tenerlo a mente mentre cerchiamo di capire il vero significato del versetto 6.8.7. Il verso significa che Ātman è SAT; pervade tutto ciò che è qui; quindi, ogni essere è Satyam; O, Śvetaketu, tu sei quello (Satyam).

In 6.9, Uddālaka spiega ulteriormente a suo figlio come l’identità personale si perde quando viene fusa con l’Entità Suprema come menzionato in 6.8.6, citando l’esempio del processo di produzione del miele da parte delle api mellifere.
Le api raccolgono il nettare da vari alberi e fanno il miele mescolando il tutto; quando si produce il miele, il nettare di un albero non può distinguersi dal nettare di altri alberi; la sua identità personale è persa. Tutti gli esseri, siano essi una tigre, o un leone, o un lupo, o un maiale, o un insetto, o un moscerino, o una zanzara, continuano tutti la loro esistenza allo stesso modo.
Ciò significa che esistono come fusi nell’Entità Suprema senza conoscere la loro identità personale, come nel caso del nettare di vari alberi nel miele. Il versetto dice quanto segue:

त इह व्यघ्रो वा सिंहो वा वृको वा वराहो वा कीटो वा पतङ्गो वा दंशो वा मशको वा यद्यद्भवन्ति तदाभवन्ति ॥ ६.९.३ ॥
ta iha vyaghro vā siṃho vā vṛko vā varāho vā kīṭo vā pataṅgo vā daṃśo vā maśako vā yadyadbhavanti tadābhavanti || 6.9.3 ||

Nonostante questa espressa dichiarazione e gli esempi illuminanti secondo cui fondendosi con Ātman si perde l’identità personale degli esseri, alcuni interpretano questo verso nel senso che queste creature mantengono la loro identità e rinascono come gli stessi esseri. Questo perché fraintendono il significato di ‘ābhavanti‘ come continuazione dell’esistenza ‘con la stessa identità’.
Si può notare specificamente che questo versetto è seguito dalla dichiarazione in 6.9.4 che la detta Entità Suprema è Ātman e tutto, come in 6.8.7. Troviamo un’ulteriore elaborazione di questa idea anche in 6.10, l’esempio citato è quello dei fiumi che si fondono con il mare e perdono la loro identità personale. Fino alla fine del capitolo, lo stesso concetto viene affrontato ripetutamente.

Capitolo settimo

Questo capitolo narra di  Sanatkumāra che insegna a Narada l’indagine sul principio ultimo di Ātman.
Nārada si avvicina a Sanatkumāra dicendo che conosce tutti i Veda e la letteratura ausiliaria, ma non ha ancora superato il dolore poiché non conosce l’Ātman. Questo potrebbe ricordarci il contesto e la rilevanza della domanda che Uddālaka Āruṇi stava ponendo a suo figlio Śvetaketu (6.1.2 precedente). Ora, allo stesso modo Nārada chiede quell’istruzione che lo porterebbe oltre il dolore.
Di conseguenza, Sanatkumāra insegna a Narada partendo dalle possibilità e dai limiti della meditazione su vari oggetti.
Inizialmente propone “Nomi” come oggetto poiché dice che i Veda, ecc. sono semplici nomi. Passo dopo passo, passa a vari altri ‘oggetti’ come la parola, la mente, l’immaginazione, ecc. e infine raggiunge Prāṇa (forza vitale). Dice che Prāṇa è l’ultimo di tutti gli altri oggetti di origine fisica, poiché è Prāṇa che li sostiene tutto: tutti gli organi, le facoltà e anche gli stessi esseri, mentre  allo stesso tempo, Prāṇa è indipendente da tutti loro. Pertanto, Prāṇa è tutto (per quanto riguarda l’esistenza fisica dell’uomo); colui che sa così è chiamato Ativādi (7.15.4). Ativādi è colui che parla in modo assertivo. Per parlare in modo assertivo si dovrebbe conoscere la verità (7.16.1). Si sa solo riflettendo; nessuno sa senza riflettere (7.18.1). Questa dichiarazione è molto importante; i nostri sensi non raccolgono la conoscenza direttamente da nessuna parte. Ottengono segnali e questi segnali vengono interpretati dalla mente (manas-मनस्) sotto la supervisione dell’intelligenza (buddhi-बुद्धि) accedendo e confrontando con i dati già esistenti in memoria (citta-चित्त); è attraverso tale riflessione che la “persona che conosce dentro” (ahaṃkāra-अहंकार) sa.
Per inciso, questi quattro, vale a dire manas, intelligenza, memoria e persona che conosce, sono definiti collettivamente come “organi d’azione interni” (antaḥkaraṇa-अन्तःकरण).

Nel verso successivo si afferma che la riflessione è possibile se solo abbiamo compostezza (7.19.1). Per acquisire la compostezza, è necessaria la stabilità mentale (7.20.1). Per essere stabili, si dovrebbe essere attivi in modo che nessun lavoro venga lasciato in sospeso (7.21.1). Uno sarebbe attivo, quando ottiene la felicità agendo; se non c’è la felicità non agirebbe (7.22.1).
La felicità eterna esiste in ciò che è infinito nell’essenza (7.23.1). Infinito è ciò in cui nient’altro è visto, udito o conosciuto; (quando non c’è nient’altro, non c’è bisogno del desiderio di qualcosa o dell’azione per acquisirlo; di conseguenza non c’è spazio per l’infelicità); ciò che è infinito è immortale e ciò che è finito è mortale (7.24.1). L’infinito e l’immortale: è l’Ātman che pervade tutto e tutti; tutto ciò che qui è emerso da Ātman (7.25.2). Conoscendo in tal modo il principio ultimo di Ātman, Narada fu sollevato dai suoi dolori. Questo episodio di Nārada giustifica la critica di Uddālaka rispetto alla presunzione di Śvetaketu.

Capitolo ottavo

Entriamo ora nell’ultimo capitolo di questa Upaniṣad. Contiene una discussione molto dettagliata su Ātman  e Brahman. Il capitolo si apre con un orientamento su ciò che dovrebbe essere ricercato e conosciuto; ciò che si trova nello spazio all’interno della dimora del loto, nel nostro Cuore (8.1.1).

अथ यदिदमस्मिन्ब्रह्मपुरे दहरं पुण्डरीकं वेश्म दहरोऽस्मिन्नन्तराकाशस्तस्मिन्यदन्तस्तदन्वेष्टव्यं तद्वाव विजिज्ञासितव्यमिति ॥ ८.१.१ ॥
atha yadidamasminbrahmapure daharaṃ puṇḍarīkaṃ veśma daharo’sminnantarākāśastasminyadantastadanveṣṭavyaṃ tadvāva vijijñāsitavyamiti || 8.1.1 ||

Brahma pura significa Cuore; ma non è il cuore della circolazione sanguigna. È il centro della coscienza, che nel linguaggio scientifico moderno è il talamo. Qual’è l’autorità per questa affermazione? Il verso 3.6 della Praśna Upaniṣad dice che il Cuore, che dovrebbe essere la sede di Ātman, è dove i nervi sono collegati. Ātman, lo sappiamo, è pura coscienza in essenza (oltre all’esistenza e alla beatitudine); quindi, la sua sede è il centro della coscienza. Questo è il talamo, perché è il centro nevralgico ed è considerato il quadro di comando delle informazioni. Tutti i segnali arrivano ad esso e quindi trasmessi agli organi interessati. Attraverso i nervi che emanano dal talamo, la coscienza pervade tutto il corpo. Quindi, Ātman è nel Cuore,  il versetto dice che è quello (Ātman) che dovrebbe essere cercato e conosciuto. La maggior parte degli interpreti prende la parola “cuore” per indicare il cuore della circolazione sanguigna e di conseguenza interpreta erroneamente nāḍī  nelle scritture come arteria invece del vero significato di “nervo”; questo errore porta a fuorviare la comprensione e la corretta trasmissione del vero messaggio delle Upaniṣad.
A questo proposito si veda anche il contenuto del punto 8.3.3 sotto riportato.

Dalla descrizione data nel versetto 8.1.3, è ampiamente chiaro che ciò che c’è nella dimora del loto è Ātman.
Il versetto afferma che lo spazio entro la detta dimora del loto è grande quanto lo spazio esterno e contiene qualunque cosa qui nel cielo e nella terra e ancora di più. Ciò significa che tutto ciò che è esterno è contenuto all’interno. La frase “e ancora di più” indica che il mondo esterno è un’espressione dell’entità interiore e che c’è spazio per ulteriori espressioni.

Anche l’uso “dimora del loto” è significativo; come il loto non è bagnato dall’acqua, sebbene sia stabilito nell’acqua, così è l’entità in questa dimora, cioè, Ātman.

In 8.1.5, si dichiara che l’Ātman non è deteriorato quando il corpo invecchia e non muore quando il corpo è morto; il Cuore è Satyam e in esso sono stabiliti tutti i desideri; ma l’Ātman è libero da mali, vecchiaia, morte, dolori, fame e sete; qualunque cosa voglia e decida, si avvera. L’espressione ‘Ātman è libero da mali, ecc.’ significa che l’Ātman è privo di tutte le dualità di male-virtù, piacere-dolore, ecc; è puro (sereno) SAT-CIT-ĀNANDA che trascende tutte le dualità.

In continuazione di quanto detto in 8.1.1, in 8.3.3 si afferma che questo Ātman è nel Cuore.
L’etimologia della parola “Cuore” è qui data come: हृदि + अयम् = हृदयम् (hṛdi + ayam = hṛdayam). ‘hṛdi‘ significa nella parte interna del torace; ayam indica Ātman.
Pertanto, Cuore o hṛdayam significa il torace interno dove dimora l’Ātman. Thalamus in greco significa anche “camera”.
La frase “Ātman è nel cuore” deve essere pertanto intesa così:

«La forma fisica più sottile di un essere vivente è una cellula. Contiene alcune caratteristiche fisiche e anche le informazioni codificate sulle qualità genetiche e sui tratti ereditari. Contiene anche l’energia della coscienza che legge e interpreta queste informazioni e motiva anche le funzioni fisiche a promuoverle. Questa pura coscienza è la parte CIT dell’Ātman,  la parte fisica in cui è situata è il Cuore. Man mano che la cellula si moltiplica e cresce in un essere a tutti gli effetti, anche questo Cuore si sviluppa nella sua forma matura e con esso si stabilisce anche una rete di nervi, attraverso la quale Ātman pervade l’intero fisico dell’essere. Pertanto, Ātman non si trova esclusivamente nel Cuore, sebbene sia affermato: “Ātman आत्मन् è nel Cuore”. Analogamente, la parte SAT di Ātman è già presente e pervade tutto l’essere, sostenendo la sua esistenza fisica’.

Il verso 8.3.4 parla del corpo e dell’essere sereno al suo interno. Da 8.1.5 sappiamo che questo essere sereno è Ātman.
Quindi, il riferimento qui è a Ātman che sostiene il corpo. Questo è Brahma . In questo verso si afferma che il nome del detto Brahma è ‘Satyam‘. Quando il corpo è morto, la parte “CIT” di Ātman si ritira nella forma unificata suprema di SAT-CIT-ĀNANDA.

Il ‘Satyam‘ è spiegato così in 8.3.5:

तानि ह वा एतानि त्रीण्यक्षराणि सतीयमिति तद्यत्सत्तदमृतमथ यत्ति तन्मर्त्यमथ यद्यं तेनोभे यच्छति यदनेनोभे यच्छति तस्माद्यमहरहर्वा एवंवित्स्वर्गं लोकमेति
॥ ८.३.५ ॥
tāni ha vā etāni trīṇyakṣarāṇi satīyamiti tadyatsattadamṛtamatha yatti tanmartyamatha yadyaṃ tenobhe yacchati yadanenobhe yacchati tasmādyamaharaharvā evaṃvitsvargaṃ lokameti || 8.3.5 ||

Significato: “Esso (Satyam) sono queste tre lettere, sa, ti, yam; sa è immortale, ti è mortale e yam li tiene insieme”.

Possiamo confrontare questa spiegazione di Satyam con quella data in 5.5.1 della Bṛhadāraṇyaka; entrambi trasmettono la stessa idea. Inoltre, questa definizione è conforme alla dichiarazione in 2.3.1 della Bṛhadāraṇyaka che Brahma ha due forme, vale a dire il mortale e l’immortale, ecc. Rispetto a questa nozione di Brahma, si può notare che Ātman è assolutamente immortale.

Inoltre, nel versetto 8.4.1  è insegnato che Ātman, in questo universo,  mantiene tutto nella posizione corretta in modo che mantengano la loro esistenza individuale e che serva anche come forza vincolante che stabilisce un’interconnessione tra tutti loro; non è vinta dal giorno e dalla notte, dalla vecchiaia e dalla morte, dal dolore e dalle opere buone/cattive.
Questi ad  ulteriore chiarimento su ciò che abbiamo già compreso di Ātman.

Le riflessioni sul Cuore e sui nervi sono ulteriormente sviluppate nella sezione 8.6. Nel versetto 8.6.1 si afferma che i nervi del cuore sono di natura estremamente sottile, sono di vari colori come marrone, bianco, blu, giallo e rosso. Il versetto 8.6.3 dice che quando una persona è profondamente addormentata, in perfetto riposo, la sua coscienza si ritira dagli organi di senso e rimane all’interno dei nervi; allora è posseduto unicamente dallo splendore di Ātman; allora non conosce i dolori.

Il verso 8.6.6 ci parla del numero di nervi. Il verso è:

तदेष श्लोकः । शतं चैका च हृदयस्य नाड्यस्तासां मूर्धानमभिनिःसृतैका । तयोर्ध्वमायन्नमृतत्वमेति विष्वङ्ङन्या उत्क्रमणे भवन्त्युत्क्रमणे भवन्ति ॥ ८.६.६ ॥
tadeṣa ślokaḥ | śataṃ caikā ca hṛdayasya nāḍyastāsāṃ mūrdhānamabhiniḥsṛtaikā | tayordhvamāyannamṛtatvameti viṣvaṅṅanyā utkramaṇe bhavantyutkramaṇe bhavanti || 8.6.6 ||

Significato: ‘Ci sono 101 nervi attaccati al Cuore, di cui uno sale; muovendo da quel nervo, si raggiunge l’immortalità. Tutti gli altri nervi portano in direzioni diverse”.

Lo stesso verso è ripetuto nella Kaṭha Upaniṣad 6.16 e lo stesso argomento è trattato in dettaglio in 3.6 e 3.7 della  Praśna Upaniṣad. Nella Praśna è detto che il numero dei nervi principali è 101 che si diramano nei nervi secondari e terziari, per un totale di 72 crore e 72 lakh. Quello a cui si fa riferimento nel verso precedente è ovviamente un nervo principale.
Poiché la sua direzione è verso l’alto, si deve dedurre che sia l’autostrada di comunicazione del cervello. Il movimento verso l’alto attraverso il nervo, menzionato nel verso, deve essere diretto al cervello che è effettivamente il centro della conoscenza.
Andare verso l’alto’, quindi, significa ‘andare al cervello’ che, a sua volta, implica perseguire la conoscenza.
Cumulativamente, la dichiarazione nel versetto significherebbe che acquisendo la conoscenza si sarebbe in grado di raggiungere l’immortalità. Ai restanti nervi, invece, sono affidate le funzioni corporee; quindi “seguirli” significa indulgere nei piaceri mondani, che ci porterebbero fuori strada. Come raggiungiamo l’immortalità acquisendo conoscenza? Quando siamo Illuminati sul segreto dell’esistenza, ci rendiamo conto che è sciocco essere sopraffatti da Kāma (attaccamento al piacere) e così siamo salvati dal cadere nelle miserie mondane. L’immortalità è quello stato in cui Kāma non ci raggiunge. Morte significa semplicemente capitolazione a Kama. Vedremo di più su questo argomento nei  successivi articoli.

Ora, dall’8.7 fino alla fine della Upaniṣad, l’argomento è Prajāpati che impartisce la conoscenza a Deva e Asura [dei e demoni]. Prajāpati una volta si espresse in questo modo: “Ciò che si dovrebbe cercare e conoscere è l’Ātman che è libero da male, decadenza, morte, dolore, fame, sete; le sue volontà e le sue risoluzioni sono compiute; chi lo cerca e lo conosce, raggiunge tutti i mondi e tutti i desideri”. Deva e Asura  vennero a conoscenza di tale affermazione. Desiderosi di soddisfare i loro desideri e di conquistare tutti i mondi, decisero di avvicinarsi a Prajāpati per essere istruiti al riguardo. Di conseguenza Indra tra i Deva e Virochana tra gli Asura incontrarono Prajāpati per chiedergli di ricevere l’istruzione desiderata. Rimasero con Prajāpati per trentadue anni lunghi; alla fine Prajāpati li istruì: «Ho detto del Puruṣa che si vede negli occhi; questo è l’Ātman, immortale e senza paura; questo è Brahma  (8.7.4). A questo punto , Deva e Asura sollevarono un dubbio:  “questo Puruṣa è colui che è visto nello specchio o nell’acqua”.

Prajāpati ha quindi chiarito che “è lui che si percepisce in tutti questi”. Poi chiese loro di guardarsi in una tazza d’acqua; lo hanno fatto e si sono visti come erano. Di nuovo chiese loro di ripetere lo stesso compito dopo essersi adornati, vestiti e puliti bene; lo fecero e si ritrovarono come erano e lo dissero a Prajāpati. Rendendosi conto che questi due erano abbastanza maturi per vedere oltre l’apparenza fisica, Prajāpati li rimandò indietro dicendo che avevano visto quello che cercavano.
Se ne andarono pienamente soddisfatti nei loro cuori (8.8.3). Virochana diffuse questa istruzione tra gli Asura; di conseguenza, gli Asura decorano ancora il corpo del defunto con cibo, vestiti e ornamenti con la speranza che questi gli fruttassero i doni dell’altro mondo (8.8.5). Invece Indra, prima di raggiungere i Deva, trovò qualche difficoltà nell’istruzione. Pensò: “Se l’Ātman diventa ben vestito, adornato e pulito come il corpo, allora se il corpo è morto, anche Ātman morirà. Ma l’Ātman è immortale”. 

Quindi, trovò l’istruzione inaccettabile e di conseguenza tornò da Prajāpati per ricevere un’ulteriore illuminazione. Anche questa volta dovette trascorrere trentadue anni con Prajāpati. Questo episodio si è ripetuto più volte   con una permanenza complessiva di centouno anni, con Prajāpati che ogni volta,  ha elevato Indra a nuovi livelli di consapevolezza sull’Ātman.
Alla fine Prajāpati gli disse: “Indra, questo corpo mortale è trattenuto dalla morte; ma è la dimora dell’immortale, incorporeo Ātman. Quello corporeo è preso dal piacere e dal dolore, ma l’incorporeo non lo è (8.12.1). Ātman fa sì che gli occhi vedano, il naso annusi, le orecchie ascoltino, la parola  parli e la mente  pensi (8.12.4, 8.12.5). Coloro che meditano su questo Ātman ottengono tutti i mondi e soddisfano tutti i desideri (8.12.6)”.

L’Upaniṣad conclude le istruzioni con il consiglio che colui che, dopo aver studiato i Veda in modo appropriato e aver svolto i doveri di padrone di casa, vive una vita priva di godimento sensuale, frenando i sensi e allo stesso tempo, astenendosi dal causare indebite ferite ad altre creature, raggiunge il mondo di Brahma e non ritorna mai più. L’implicazione è che trascende tutte le dualità e, di conseguenza, si sente calma e pace completa; si stabilisce in esso. Si può notare l’insistenza sull’Illuminazione spirituale attraverso un adeguato studio dei Veda e l’indifferenza per i piaceri fisici. Questi due definiscono precisamente lo stato di distacco ed equanimità che costituisce il mondo di Brahma. Colui che raggiunge questo mondo non tornerà mai più, semplicemente a causa dell’esperienza della pura Beatitudine, che non può mai essere eguagliata da alcun piacere fisico; si renderà conto di quanto sia umile la ricerca del piacere fisico e vi rimarrà quindi con piena contentezza.

Per coloro che desiderassero approfondire con lo studio integrale della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, suggeriamo queste pregevoli edizioni in italiano:
Upaniṣad, Bompiani, Milano, 2010
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, con il commento di Śaṅkara, Āśram Vidyā, Roma, 2006

 

divisore fantasia geometrica

[1]la scienza della brhadaranyaka upanisad

[2]mantra mahavakyani i grandi detti

[3]Deva देव: divinità, divino, celeste, splendente; idoneo  per essere adorato o onorato.

[4]Asura असुर :  spirito malvagio, demone; capo degli spiriti maligni.

[5]त्रयो धर्मस्कन्धा यज्ञोऽध्ययनं दानमिति प्रथमस्तप एव द्वितीयो ब्रह्मचार्याचार्यकुलवासी तृतीयोऽत्यन्तमात्मानमाचार्यकुलेऽवसादयन्सर्व एते पुण्यलोका भवन्ति ब्रह्मसंस्थोऽमृतत्वमेति ॥ २.२३.१ ॥
trayo dharmaskandhā yajño’dhyayanaṃ dānamiti prathamastapa eva dvitīyo brahmacāryācāryakulavāsī tṛtīyo’tyantamātmānamācāryakule’vasādayansarva ete puṇyalokā bhavanti brahmasaṃstho’mṛtatvameti || 2.23.1 ||
Ci sono tre componenti nella religione: la prima comprende i sacrifici, lo studio e la carità; la seconda consiste in austerità, come il digiuno; e la terza è la vita del celibato e la convivenza con il Maestro in casa sua fino alla morte. Le persone devote a queste tre componenti vanno in paradiso dopo la morte. Ma  [solo] chi è devoto al Brahman ottiene l’immortalità.

[6]प्रजापतिर्लोकानभ्यतपत्तेभ्योऽभितप्तेभ्यस्त्रयी विद्या सम्प्रास्रवत्तामभ्यतपत्तस्या अभितप्ताया एतान्यक्षराणि सम्प्रास्र्वन्त भूर्भुवः स्वरिति ॥ २.२३.२ ॥
prajāpatirlokānabhyatapattebhyo’bhitaptebhyastrayī vidyā samprāsravattāmabhyatapattasyā abhitaptāyā etānyakṣarāṇi samprāsrvanta bhūrbhuvaḥ svariti || 2.23.2 ||
Prajāpati  pensava ai mondi [che avrebbe avuto]. Dal suo pensiero, hanno preso forma i tre Veda. Poi iniziò a pensare ai Veda. Come risultato di questo pensiero, i Veda diedero vita ai tre vyāhṛti: bhūḥ, bhuvaḥ e svaḥ.

[7]तान्यभ्यतपत्तेभ्योऽभितप्तेभ्य ॐकारः सम्प्रास्रवत्तद्यथा शङ्कुना सर्वाणि पर्णानि संतृण्णान्येवमोंकारेण सर्वा वाक्संतृण्णोंकार एवेदं सर्वमोंकार एवेदं सर्वम् ॥ २.२३.३ ॥
॥ इति त्रयोविंशः खण्डः ॥
tānyabhyatapattebhyo’bhitaptebhya ॐkāraḥ samprāsravattadyathā śaṅkunā sarvāṇi parṇāni saṃtṛṇṇānyevamoṃkāreṇa sarvā vāksaṃtṛṇṇoṃkāra evedaṃ sarvamoṃkāra evedaṃ sarvam || 2.23.3 ||
[quindi Prajāpati] meditò su quei tre vyāhṛti [bhūḥ, bhuvaḥ e svaḥ]. Dai vyāhṛti, a cui pensava, emerse Oṃkāra. Proprio come una rete di nervature è sparsa su una foglia, allo stesso modo Oṃkāra permea ogni forma di discorso [tutto]. Tutto questo è Oṃkāra. Oṃkāra è tutto questo.

[8]मनोमयः प्राणशरीरो भारूपः सत्यसंकल्प आकाशात्मा सर्वकर्मा सर्वकामः सर्वगन्धः सर्वरसः सर्वमिदमभ्यत्तोऽवाक्यनादरः ॥ ३.१४.२ ॥
manomayaḥ prāṇaśarīro bhārūpaḥ satyasaṃkalpa ākāśātmā sarvakarmā sarvakāmaḥ sarvagandhaḥ sarvarasaḥ sarvamidamabhyatto’vākyanādaraḥ || 3.14.2 ||
È controllato dalla mente [cioè, la sua mente decide cosa dovrebbe e non dovrebbe fare]. Ha un corpo sottile ed è luminoso. Se vuole qualcosa, non manca mai di ottenerla. Il suo Sé è immacolato come il cielo. Il mondo intero è una sua creazione. [I desideri sono molti, e] tutti quei desideri sono i suoi desideri. Tutti gli odori sono suoi; allo stesso modo, tutti i gusti sono suoi. È ovunque nel mondo. Non ha organi di senso ed è libero dai desideri.

[9]एष म आत्मान्तर्हृदयेऽणीयान्व्रीहेर्वा यवाद्वा सर्षपाद्वा श्यामाकाद्वा श्यामाकतण्डुलाद्वैष म

आत्मान्तर्हृदये ज्यायान्पृथिव्या ज्यायानन्तरिक्षाज्ज्यायान्दिवो ज्यायानेभ्यो लोकेभ्यः ॥३.१४.३ ॥
eṣa ma ātmāntarhṛdaye’ṇīyānvrīhervā yavādvā sarṣapādvā śyāmākādvā śyāmākataṇḍulādvaiṣa ma ātmāntarhṛdaye jyāyānpṛthivyā jyāyānantarikṣājjyāyāndivo jyāyānebhyo lokebhyaḥ || 3.14.3 ||
Il mio Sé, nel mio cuore, è più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un chicco d’orzo, più piccolo di un seme di senape, più piccolo di un chicco di miglio, più piccolo anche del chicco di un chicco di miglio. Il Sé nel mio cuore è più grande della terra, più grande della regione mediana, più grande del cielo e persino più grande di tutti questi mondi.

[10]सर्वकर्मा सर्वकामः सर्वगन्धः सर्वरसः सर्वमिदमभ्यात्तोऽवाक्यनादर एष म आत्मान्तर्हृदय एतद्ब्रह्मैतमितः
प्रेत्याभिसंभवितास्मीति यस्य स्यादद्धा न विचिकित्सास्तीति ह स्माह शाण्डिल्यः शाण्डिल्यः ॥ ३.१४.४ ॥
sarvakarmā sarvakāmaḥ sarvagandhaḥ sarvarasaḥ sarvamidamabhyātto’vākyanādara eṣa ma ātmāntarhṛdaya etadbrahmaitamitaḥ pretyābhisaṃbhavitāsmīti yasya syādaddhā na vicikitsāstīti ha smāha śāṇḍilyaḥ śāṇḍilyaḥ || 3.14.4 ||
Colui che è l’unico creatore, i cui desideri sono i desideri di tutti, i cui odori sono gli odori di tutti, i cui gusti sono i gusti di tutti, che è dovunque, che non ha organi di senso e che è libero dai desideri, è il mio Sé ed è nel mio cuore. Non è altro che Brahman. Quando lascerò questo corpo, lo raggiungerò. Chi crede fermamente in questo non ha dubbi nella sua mente. [Di sicuro raggiungerà il Brahman.] Questo è ciò che ha detto Śāṇḍilya.

[11]॥ पञ्चमोऽध्यायः ॥
यो ह वै ज्येष्ठं च श्रेष्ठं च वेद ज्येष्ठश्च ह वै श्रेष्ठश्च भवति प्राणो वाव ज्येष्ठश्च श्रेष्ठश्च ॥ ५.१.१ ॥
|| pañcamo’dhyāyaḥ ||
yo ha vai jyeṣṭhaṃ ca śreṣṭhaṃ ca veda jyeṣṭhaśca ha vai śreṣṭhaśca bhavati prāṇo vāva jyeṣṭhaśca śreṣṭhaśca || 5.1.1 ||
Om. Colui che conosce il più antico e il migliore diventa lui stesso il più vecchio e il migliore. È prāṇa che è il più antico e il migliore.
यो ह वै वसिष्ठं वेद वसिष्ठो ह स्वानां भवति वाग्वाव वसिष्ठः ॥ ५.१.२ ॥
yo ha vai vasiṣṭhaṃ veda vasiṣṭho ha svānāṃ bhavati vāgvāva vasiṣṭhaḥ || 5.1.2 ||
Colui che conosce ciò che è di  rango elevato diventa egli stesso di alto rango tra i propri parenti. L’eloquenza conferisce questa posizione elevata [nella società].
यो ह वै प्रतिष्ठां वेद प्रति ह तिष्ठत्यस्मिंश्च लोकेऽमुष्मिंश्च चक्षुर्वाव प्रतिष्ठा ॥ ५.१.३ ॥
yo ha vai pratiṣṭhāṃ veda prati ha tiṣṭhatyasmiṃśca loke’muṣmiṃśca cakṣurvāva pratiṣṭhā || 5.1.3 ||
Colui che conosce il sostegno ottiene un sostegno in questo mondo e anche nell’altro mondo. L’occhio è davvero il supporto.
यो ह वै सम्पदं वेद संहास्मै कामाः पद्यन्ते दैवाश्च मानुषाश्च श्रोत्रं वाव सम्पत् ॥ ५.१.४ ॥
yo ha vai sampadaṃ veda saṃhāsmai kāmāḥ padyante daivāśca mānuṣāśca śrotraṃ vāva sampat || 5.1.4 ||
Colui che conosce la ricchezza ha tutte le cose desiderate dagli esseri umani e dagli dei. La ricchezza è rappresentata dalle orecchie.
यो ह वा आयतनं वेदायतनं ह स्वानां भवति मनो ह वा आयतनम् ॥ ५.१.५ ॥
yo ha vā āyatanaṃ vedāyatanaṃ ha svānāṃ bhavati mano ha vā āyatanam || 5.1.5 ||
Chi conosce la dimora diventa il rifugio della sua famiglia. La mente è la dimora.
अथ ह प्राणा अहंश्रेयसि व्यूदिरेऽहंश्रेयानस्म्यहं श्रेयानस्मीति ॥ ५.१.६ ॥
atha ha prāṇā ahaṃśreyasi vyūdire’haṃśreyānasmyahaṃ śreyānasmīti || 5.1.6 ||
Una volta che gli organi di senso iniziarono a litigare tra loro, ciascuno affermava di essere il  supremo. Ognuno di loro diceva: ‘Io sono il migliore’.
ते ह प्राणाः प्रजापतिं पितरमेत्योचुर्भगवन्को नः श्रेष्ठ इति तान्होवाच यस्मिन्व उत्क्रान्ते शरीरं पापिष्ठतरमिव दृश्येत स वः श्रेष्ठ इति ॥ ५.१.७ ॥
te ha prāṇāḥ prajāpatiṃ pitarametyocurbhagavanko naḥ śreṣṭha iti tānhovāca yasminva utkrānte śarīraṃ pāpiṣṭhataramiva dṛśyeta sa vaḥ śreṣṭha iti || 5.1.7 ||
Gli organi si recarono quindi dal loro padre Prajāpati e gli chiesero: ‘Reverendo Signore, chi di noi è il migliore?’ Egli rispose: ‘Il migliore tra voi e colui alla cui partenza il corpo diventa totalmente intoccabile’.
सा ह वागुच्चक्राम सा संवत्सरं प्रोष्य पर्येत्योवाच कथमशकतर्ते मज्जीवितुमिति यथा कला अवदन्तः प्राणन्तः प्राणेन पश्यन्तश्चक्षुषा शृण्वन्तः श्रोत्रेण ध्यायन्तो मनसैवमिति प्रविवेश ह वाक् ॥ ५.१.८ ॥
sā ha vāguccakrāma sā saṃvatsaraṃ proṣya paryetyovāca kathamaśakatarte majjīvitumiti yathā kalā avadantaḥ prāṇantaḥ prāṇena paśyantaścakṣuṣā śṛṇvantaḥ śrotreṇa dhyāyanto manasaivamiti praviveśa ha vāk || 5.1.8 ||
La parola per primo ha lasciato il corpo. Dopo essere stato via per un anno intero, tornò e chiese agli altri organi: “Come vi siete mantenuti in mia assenza?” Il resto degli organi disse: “Proprio come fanno le persone mute senza parlare, ma possono sopravvivere respirare e vedere con gli occhi, ascoltare con le orecchie e pensare con la mente. Abbiamo fatto lo stesso.’ Sentendo tutto questo, la parola è rientrata nel corpo.
चक्षुर्होच्चक्राम तत्संवत्सरं प्रोष्य पर्येत्योवाच कथमशकतर्ते मज्जीवितुमिति यथान्धा अपश्यन्तः प्राणन्तः प्राणेन वदन्तो वाचा शृण्वन्तः श्रोत्रेण ध्यायन्तो मनसैवमिति प्रविवेश ह चक्षुः ॥ ५.१.९ ॥
cakṣurhoccakrāma tatsaṃvatsaraṃ proṣya paryetyovāca kathamaśakatarte majjīvitumiti yathāndhā apaśyantaḥ prāṇantaḥ prāṇena vadanto vācā śṛṇvantaḥ śrotreṇa dhyāyanto manasaivamiti praviveśa ha cakṣuḥ || 5.1.9 ||
Successivamente l’organo della vista lasciò il corpo. Dopo un anno intero, è tornato e ha chiesto agli altri organi: “Come vi siete mantenuti in mia assenza?” Il resto degli organi rispose: “Proprio come fanno i ciechi senza vedere, ma possono sopravvivere respirare e parlare con l’organo della parola, ascoltare con le orecchie e pensare con la mente. Abbiamo fatto lo stesso.’ Sentendo tutto questo, l’organo della vista è rientrato. corpo.
श्रोत्रं होच्चक्राम तत्संवत्सरं प्रोष्य पर्येत्योवाच कथमशकतर्ते मज्जीवितुमिति यथा बधिरा अशृण्वन्तः प्राणन्तः प्राणेन वदन्तो वाचा पश्यन्तश्चक्षुषा ध्यायन्तो मनसैवमिति प्रविवेश ह श्रोत्रम् ॥ ५.१.१० ॥
śrotraṃ hoccakrāma tatsaṃvatsaraṃ proṣya paryetyovāca kathamaśakatarte majjīvitumiti yathā badhirā aśṛṇvantaḥ prāṇantaḥ prāṇena vadanto vācā paśyantaścakṣuṣā dhyāyanto manasaivamiti praviveśa ha śrotram || 5.1.10 ||
Successivamente l’organo dell’udito lasciò il corpo. Dopo essere rimasto lontano un anno intero, è tornato e ha chiesto agli altri organi: “Come vi siete mantenuti in mia assenza?” Il resto degli organi rispose: “Proprio come fanno i sordi senza udito, ma sono in grado di sopravvivere respirare e parlare con l’organo della parola, vedere con gli occhi e pensare con la mente. Abbiamo fatto lo stesso.’ Sentendo tutto questo, l’organo dell’udito è rientrato nel corpo.
मनो होच्चक्राम तत्संवत्सरं प्रोष्य पर्येत्योवाच कथमशकतर्ते मज्जीवितुमिति यथा बाला अमनसः प्राणन्तः प्राणेन वदन्तो वाचा पश्यन्तश्चक्षुषा शृण्वन्तः श्रोत्रेणैवमिति प्रविवेश ह मनः ॥ ५.१.११ ॥
mano hoccakrāma tatsaṃvatsaraṃ proṣya paryetyovāca kathamaśakatarte majjīvitumiti yathā bālā amanasaḥ prāṇantaḥ prāṇena vadanto vācā paśyantaścakṣuṣā śṛṇvantaḥ śrotreṇaivamiti praviveśa ha manaḥ || 5.1.11 ||
Poi la mente lasciò il corpo. Dopo essere stata via un anno intero, è tornata e ha chiesto agli altri organi: “Come vi siete mantenuti in mia assenza?” Il resto degli organi rispose: “Proprio come fanno i bambini senza pensare a se stessi, ma sono in grado di sopravvivere respirando, e parla con l’organo della parola, guarda con gli occhi e ascolta con le orecchie. Abbiamo fatto lo stesso.’ Sentendo tutto questo, la mente è rientrata nel corpo.
अथ ह प्राण उच्चिक्रमिषन्स यथा सुहयः पड्वीशशङ्कून्संखिदेदेवमितरान्प्राणान्समखिदत्तं हाभिसमेत्योचुर्भगवन्नेधि त्वं नः श्रेष्ठोऽसि मोत्क्रमीरिति ॥ ५.१.१२ ॥
atha ha prāṇa uccikramiṣansa yathā suhayaḥ paḍvīśaśaṅkūnsaṃkhidedevamitarānprāṇānsamakhidattaṃ hābhisametyocurbhagavannedhi tvaṃ naḥ śreṣṭho’si motkramīriti || 5.1.12 ||
Ora il Prāṇa, la forza vitale, decise di andarsene. Proprio come un buon cavallo è in grado di sradicare i pioli a cui sono legate le sue zampe, allo stesso modo il Prāṇa stava per portare via con sé gli altri organi. Quegli altri organi allora vennero a lui e con grande umiltà dissero: ‘O signore, sii il nostro capo. Sei il più grande tra noi. Per favore, non lasciarci’.
अथ हैनं वागुवाच यदहं वसिष्ठोऽस्मि त्वं तद्वसिष्ठोऽसीत्यथ हैनं चक्षुरुवाच यदहं प्रतिष्ठास्मि त्वं तत्प्रतिष्ठासीति ॥ ५.१.१३ ॥
atha hainaṃ vāguvāca yadahaṃ vasiṣṭho’smi tvaṃ tadvasiṣṭho’sītyatha hainaṃ cakṣuruvāca yadahaṃ pratiṣṭhāsmi tvaṃ tatpratiṣṭhāsīti || 5.1.13 ||
L’organo della parola allora disse al Prāṇa supremo: ‘Se ho la qualità di una posizione elevata, è perché tu possiedi quella qualità.’ Poi l’organo della vista gli disse: ‘Vero, ho la qualità di sostenere gli altri, ma ti devo quella qualità’.
अथ हैनंश्रोत्रमुवाच यदहं सम्पदस्मि त्वं तत्सम्पदसीत्यथ हैनं मन उवाच यदहमायतनमस्मि त्वं तदायतनमसीति ॥ ५.१.१४ ॥
atha hainaṃśrotramuvāca yadahaṃ sampadasmi tvaṃ tatsampadasītyatha hainaṃ mana uvāca yadahamāyatanamasmi tvaṃ tadāyatanamasīti || 5.1.14 ||
L’organo dell’udito si rivolse quindi  al Prāṇa supremo: ‘Se ho la qualità della ricchezza, è perché tu hai quella qualità.’ Poi la mente gli disse: ‘Vero, ho la qualità di essere un rifugio per molti, ma quella qualità è, in effetti, tua.
न वै वाचो न चक्षूंषि न श्रोत्राणि न मनांसीत्याचक्षते प्राणा इत्येवाचक्षते प्राणो ह्येवैतानि सर्वाणि भवति ॥ ५.१.१५ ॥
॥ इति प्रथमः खण्डः ॥
na vai vāco na cakṣūṃṣi na śrotrāṇi na manāṃsītyācakṣate prāṇā ityevācakṣate prāṇo hyevaitāni sarvāṇi bhavati || 5.1.15 ||
I Sapienti ricercatori  non li chiamano organi della parola, vista, udito o mente. Li chiamano ‘Prāṇa,’ perché Prāṇa è diventato tutti questi organi.

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