
Se l’autore degli Yogasūtrabhāṣyavivaraṇa non è Ādi Śaṅkarācārya, nessun dubbio hanno gli specialisti sulla paternità di quest’ultimo rispetto all’Ātmabodha,[1] breve ma profondo trattato (prakaraṇa) sulla “conoscenza-realizzazione dell’ātman”.
Siamo di fronte ad una “summa” dell’intero pensiero dell’Ādi, i cui versi altamente poetici sintetizzano efficacemente la visione (darśana) non-duale del Vedānta. Visione ampiamente descritta nei suoi commentari alla “triplice scienza” (Prasthānatraya) costituita dalle Upaniṣad, la Bhagavadgītā ed i Brahmasūtra.
Il trattato Ātmabodha non fa riferimento a Yama e Niyama, ma va precisato che in esso:
Quindi, di fatto, a coloro che sono già oltre, possedendo le qualificazioni alle quali si perviene attraverso Yama e Niyama. La tematica, però, non si ritiene possa essere liquidata in modo sbrigativo, essendo comunque possibile verificare se nel testo sono comunque contenuti richiami per i quali Yama e Niyama possano essere considerate delle pre-condizioni già soddisfatte..
Senza tesi pre costituite, proviamo ad enucleare alcuni aspetti degni di ulteriore riflessione e meditazione, concentrando l’attenzione direttamente sul testo.
Il terzo sūtra, apparentemente, contiene un’affermazione che segna una demarcazione netta con il sistema di Patañjali:
3. Non essendole opposta, l’azione (karma) non può distruggere l’ignoranza; soltanto la conoscenza distrugge l’ignoranza come la chiara luce dissipa l’oscurità.[3]
In tal senso possiamo leggere l’interpretazione dei curatori dell’edizione italiana:
Lo scenario appare semplice, tenendo presente che:
Concetto che ritroviamo sintetizzato nel sūtra che sintetizza l’intera visione di Śaṅkarācārya:
44. L’ātmā, benché in verità sempre presente, sembra tuttavia assente a causa dell’ignoranza (o velamento dei guṇa); quando questa è distrutta esso si svela in tutta la sua evidenza come un ornamento appeso al proprio collo.[6]
Se però prendiamo in considerazione i sūtra precedenti di Śaṅkarācārya che descrivono il metodo per raggiungere la liberazione, troviamo la descrizione di uno yogī dedito ai livelli superiori del percorso (antar-yoga, saṃyama):
38. Assiso in un luogo solitario, libero da attaccamento (virāgo) e con i sensi sotto controllo, [il discepolo] deve meditare sull’atman, Uno e infinito, senza [lasciare spazio ad] alcun altro pensiero.
39. Il saggio, dissolto con la meditazione l’intero visibile (dṛśyaṃ) nell’ātman, [deve riprendere] lo stato reale del solo atman, eternamente incontaminato come l ‘ākāśa.
40. Avendo abbandonato ogni cosa, come forma, classe sociale, ecc., il conoscitore della Realtà suprema è [definitivamente]assorbito nella sua stessa essenza (svarūpa), pienezza infinita di intelligenza e
beatitudine.[7]
Possiamo notare come tali sūtra descrivano la condizione di uno Yogi che, evidentemente, ha già realizzato un livello evolutivo superiore, realizzando le purificazioni – anche se non citate nel testo – cui rimandano i precetti contenuti in Yama e Niyama. In tal senso si ritengono degni di riflessione i sūtra dove sono indicati i requisiti per giungere allo stato di “liberato in vita”:
49. Il conoscitore che abbia abbandonato tutti i precedenti condizionamenti limitanti e i loro attributi, svelando così la propria natura di Essere-saggezza-pienezza assolute, diviene un liberato in vita (jīvanmukta), come una crisalide che si trasforma in farfalla.[8]
50. Avendo attraversato l’oceano dello smarrimento (moha) e sconfitto i dèmoni del piacere (rāga) e della repulsione-sofferenza (dveṣa), ecc., lo yogi, in perfetta unità con la pace, risplende della pienezza
dell’ātman.[9]
Pur riconoscendo la differente prospettiva in cui si collocano il sistema di Patañjali ed il Vedānta advaita di Śaṅkarācārya, non è forse inutile rammentare che entrambi sono “visioni” (darśana) della stessa Tradizione, la cui trasmissione avviene con insegnamenti che sovente fanno riferimento ad elementi comuni:
42. Come il combustibile viene interamente consumato dalla fiamma scaturita dallo sfregamento della bacchetta, così la non conoscenza è completamente distrutta dalla costante meditazione sull’ātmā (ātmā Dhyāna).[10]
Facilmente riscontrabili nel commento dei curatori dell’Opera:
“Seduto in un luogo propizio, con la coscienza sgombra da attaccamenti materiali e psichici, l’asceta deve solo meditare sull’ atman, senza farsi condizionare dal movimento concettuale.
Con il discernimento (viveka) si deve riconoscere il fenomeno-Māyā; poi, con un atto di disidentificazione (vairāgya), occorre depolarizzare la stessa mente: tutto ciò che è oggettivo, fenomenico, convenzionale, ecc. perde così valore fino a estinguersi, come il fuoco risolvente incenerisce il combustibile. Nel supremo ātman ogni distinzione svanisce, compreso il conoscitore, la conoscenza e l’oggetto di conoscenza.”[11]
Sicuramente sono da evitare forzature interpretative e facili sincretismi, il che non esclude il poter cogliere il sottile “filo d’oro” che unisce e caratterizza la Tradizione nelle sue espressioni simboliche più efficaci:
61. Realizza quel Brahman il cui splendore illumina il sole e le altre stelle, ma che non è dalla loro luce illuminato, [quel Brahman] grazie al quale tutto questo [universo]si manifesta.[12]
Fabio Milioni

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